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Con il passare dei decenni, "Farfalla di Dinard" (1956) sempre più consolida la sua natura di classico speciale per l'estro dei suoi brevi capitoli, in cui l'impareggiabile eleganza della scrittura, non lontana dall'idea del petit poème en prose, ci offre pagine che oltrepassano i normali confini di genere tra racconto, elzeviro e prosa poetica. Eugenio Montale, che aveva inizialmente destinato questi suoi testi alle pagine di un quotidiano, ci propone una formidabile e godibilissima serie di ambienti e personaggi, più o meno internazionali, tra i quali compare anche Clizia, figura chiave nei suoi versi. Come scrive nel suo importante saggio introduttivo Niccolò Scaffai, i movimenti interni di "Farfalla di Dinard" agiscono essenzialmente nell'incontro-scontro «tra la vivida presenza del ricordo privato e la sua marginalità rispetto allo sfondo storico, ai grandi eventi pur costantemente rievocati». Montale parte, in questo cammino, da episodi della sua infanzia e della sua giovinezza, tratteggiando poi, nella seconda sezione del libro, con essenzialità esemplare ravvivata da impeccabili battute di dialogo e momenti di raffinato humour, i brevi ritratti stilizzati di tipi spesso grotteschi, di bizzarri snob per lo più inaffidabili, immersi in un mondo ormai perduto. Prosegue con testi dedicati ad animali e oggetti capaci di attivare il gioco della memoria, concludendo con una serie di quadretti in cui egli stesso ci appare alla luce dei suoi tic esistenziali. Un insieme, quello della ormai felicemente storica Farfalla di Dinard, al tempo stesso apertamente articolato e internamente coerente, tra accenni autobiografici, invenzione e acutezza critica sul mondo circostante. Un'opera grazie alla quale, come scriveva Marco Forti, «se anche Eugenio Montale, paradossalmente, non avesse scritto e pubblicato un solo verso», non avrebbe «mancato di lasciare una traccia anch'essa primaria».
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