San Paolo Store

29/06/2018

Santi Pietro e Paolo (di Gianfranco Ravasi)

Nella sua Storia ecclesiastica, redatta agli inizi del IV secolo, lo storico cristiano Eusebio di Cesarea citava la testimonianza del presbitero Gaio il quale, nel II secolo, dichiarava a un suo interlocutore: “Io posso mostrarti i trofei degli Apostoli (Pietro e Paolo): se vorrai recarti al Vaticano o sulla via Ostiense, troverai i trofei dei fondatori di questa Chiesa”. In queste righe si ha la più antica testimonianza della sepoltura a Roma dei due Apostoli che la tradizione ha intimamente unito tra loro, come attesta anche la stessa celebrazione liturgica che li accumuna nella data del 29 giugno.
È ben arduo tracciare un profilo di queste due figure fondamentali nella storia della cristianità, soprattutto se si tiene conto della loro notevole presenza all’interno del Nuovo Testamento e dell’immensa eco che hanno avuto nell’arte e nella cultura occidentale, per non parlare poi dell’enorme bibliografia che a loro è stata dedicata.

Il nostro sarà, perciò, solo un abbozzo essenziale che parte da Pietro, il personaggio più citato nel Nuovo Testamento, ovviamente dopo Gesù Cristo: il suo nome originario Simone (dall’ebraico Simeone) risuona 27 volte; il nome attribuitogli da Gesù, Pétros è presente 154 volte, mentre per 9 volte si evoca l’originale aramaico di questo stesso nome, Kefa’, “pietra”. Seguiamo la trama della sua esistenza attraverso alcuni eventi decisivi. Tutto ebbe inizio sulle rive del Lago di Tiberiade, allorché, in compagnia del fratello Andrea, Pietro vide la sua vita modesta di pescatore di Betsaida trasformata dall’incontro sorprendente con quel predicatore ambulante di Nazaret: “Seguitemi, vi farò pescatori di uomini”. A quelle parole di Gesù “essi, lasciate le reti, subito lo seguirono”. Iniziava, così, la grande avventura del discepolato che avrebbe visto Pietro sempre al primo posto in vicende ora grandiose e fin incomprensibili, ora ben più modeste e faticose.

Egli era sempre presente nei momenti più importanti, con altri due discepoli, fratelli tra loro, Giacomo e Giovanni (si pensi, ad esempio, alla Trasfigurazione) e spesso toccava a lui rispondere a nome degli altri, come nel momento delicato della crisi successiva al discorso di Cafarnao tenuto da Gesù sul pane di vita: “Rispose Simon Pietro: ‘Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio’”. Eccoci, poi, al momento capitale della vita dell’Apostolo, quello che si compie nella regione galilaica di Cesarea di Filippo, di fronte alla domanda netta di Cristo: “Ma voi chi dite che io sia?”. “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”, risponde Simone. E subito seguono quelle parole di Gesù che non renderanno il discepolo soltanto il primo nella lista dei Dodici ma che gli assegneranno anche una missione altissima: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa”. Tre sono i simboli applicati da Gesù all’Apostolo in quella pagina che la liturgia propone per l’odierna solennità dei due Apostoli. Il primo è quello della pietra, evocata nel nome stesso aramaico Kefa’, segno di stabilità e sicurezza: Pietro renderà visibile la pietra fondante, primaria e divina, di Cristo sulla quale poggia la Chiesa. Le chiavi sono il secondo simbolo che non rimanda solo al potere giuridico di gestione di un regno o di una comunità ma anche la responsabilità di insegnamento, tenendo in mano la “chiave” autentica dell’interpretazione della parola di Dio. La terza immagine è di tipo forense ed è nota anche al mondo rabbinico antico: è il “legare e sciogliere”, ossia il rimettere i peccati nel nome del Signore, ma anche l’ammonire, l’esortare, il formare nella fede i fratelli. Da questo momento in avanti la vita di Pietro segue quella del suo Maestro, purtroppo non sempre con fedeltà.

Nell’ultima cena Gesù ribadisce al discepolo la sua missione di “confermare i fratelli”, ma già si intuisce nelle parole di Cristo l’imminente svolta che rivelerà la debolezza dell’Apostolo. Chi non ricorda, infatti, il successivo triplice rinnegamento che si consuma nel cortile del palazzo del sommo sacerdote, proprio mentre Gesù è processato? “Cominciò a imprecare e a giurare: ‘Io non conosco quell’uomo!’”. Ma dal baratro di quella notte Pietro emerge non solo con le lacrime del suo pentimento ma anche con la triplice professione d’amore che l’evangelista Giovanni gli mette in bocca davanti al Cristo risorto, proprio sul litorale di quel lago ove il discepolo aveva incontrato Gesù per la prima volta: “Signore, tu sai che ti voglio bene”. Ed è così che egli riceve di nuovo in modo solenne il mandato di “pascere gli agnelli” del gregge della Chiesa. In quell’occasione Cristo fa balenare a Pietro anche il suo destino ultimo terreno, quello del martirio, “la morte con la quale egli avrebbe glorificato Dio”. È ciò che si consumerà a Roma, come attesta la tradizione cristiana antica, in quella “Babilonia” dalla quale aveva scritto la sua prima Lettera. Prima, però, Pietro avrebbe annunziato la parola del Risorto che egli, per primo, aveva incontrato all’alba di Pasqua, come ci ricordano Giovanni e lo stesso Paolo. Sarà lui a intervenire autorevolmente negli eventi fondamentali della Chiesa delle origini come una “colonna”, per usare l’espressione paolina presente nella Lettera ai Galati, a partire dalla Pentecoste fino al “concilio” di Gerusalemme, secondo la narrazione offerta dagli Atti degli Apostoli. Questa seconda opera di Luca ci riserva – con le due Lettere che vanno sotto il nome di Pietro – un’ultima, intensa memoria dell’opera e della parola dell’Apostolo.

Ed è proprio in quello scritto lucano che, accanto a Pietro, entra in scena l’altro Apostolo per eccellenza, Paolo, dal nome romano unito a quello ebraico originario di Saulo, portato dal primo re di Israele, Saul, appartenente alla stessa tribù dell’Apostolo, quella di Beniamino. Paolo era figlio di tre culture: l’ebraica della sua genesi umana e spirituale, inizialmente seguita con ardore quasi fanatico; la greca per la sua formazione, predicazione e scrittura; la romana per la sua identità civile, essendo nato nella colonia imperiale di Tarso di Cilicia, nell’attuale Turchia meridionale. Gli inizi erano stati contrassegnati da una passione: “Oltre ogni misura” confessa ai galati “perseguitavo la Chiesa di Dio cercando di distruggerla”, confessione che sarà ribadita a più riprese (“ero uno zelante persecutore della Chiesa”, scrive ai filippesi). La grande svolta, come è noto, avvenne sulla strada che conduceva a Damasco con una folgorante epifania del Cristo risorto, narrata tre volte negli Atti degli Apostoli e riconosciuta dallo stesso Paolo come un’apparizione pasquale, che lo aveva costituito apostolo: “Cristo è apparso anche a me”.
Quell’evento sarà discriminante: da allora ci sarà un “prima” sconfessato e un “poi” tutto segnato da Cristo. All’ebreo osservante rigoroso Saulo subentrerà l’apostolo Paolo, infaticabile testimone del Vangelo. Due saranno le espressioni di questa missione. La prima è quella dell’esistenza stessa di Paolo che, dopo un periodo di formazione, si svolgerà attraverso un annunzio condotto senza tregua e senza risparmio. Egli supererà ben presto l’orizzonte ristretto del mondo giudaico per allargarsi verso i confini dell’Impero romano: anzi, la sua opera sarà quella di sottolineare l’originalità del Cristianesimo, pur riconoscendo le sue radici nell’ebraismo, dal quale però non era più necessario transitare e quindi non si doveva più imporre ai pagani convertiti l’atto della circoncisione ma solo il battesimo. Questa nuova impostazione ebbe la prevalenza nella Chiesa, anche se attraverso un laborioso confronto, che ebbe qualche picco polemico con Pietro, ma che approdò alla mediazione del “concilio” di Gerusalemme.

Questa scelta evangelizzatrice condusse Paolo a compiere vari viaggi missionari descritti nella seconda parte degli Atti degli Apostoli e visibili indirettamente nelle stesse lettere paoline: dalla Palestina l’onda apostolica si allargò all’Asia Minore, alla Grecia (memorabile il discorso tenuto a Atene), per raggiungere Roma, col progetto di una puntata anche in Spagna. Si configuravano, così, varie comunità, talora affidate a collaboratori dell’Apostolo, come Timoteo e Tito; con esse Paolo tenne una corrispondenza che costituisce il secondo aspetto del suo ministero di evangelizzatore. Si tratta di un blocco letterario di 13 lettere, 2.003 versetti sui 5.621 dell’intero Nuovo Testamento. Gli studiosi ora ritengono che solo sette siano da ricondurre direttamente a Paolo (Romani, Galati, 1 e 2 Corinzi, Filippesi 1, Tessalonicesi, Filemone), mentre le altre lettere facciano sempre parte dell’ambito dell’Apostolo e della tradizione a lui collegata (Efesini, Colossesi, 1 e 2 Timoteo, Tito, 2 Tessalonicesi). Si ha, comunque, un complesso teologico fondamentale per conoscere il cuore del messaggio cristiano che ha in Cristo risorto e nella salvezza da lui offerta la sua sorgente unica e necessaria.

Un sistema di pensiero che ha al suo interno una sua evoluzione e che adotta un linguaggio originale che l’Apostolo elabora sul greco da lui ben conosciuto. Vorremmo, al riguardo, fare solo un cenno prendendo come spunto un aspetto del suo capolavoro teologico, la Lettera ai romani. Due parole greche sono decisive, cháris e pístis. La prima (che è alla base della nostra “carità” o “caro, carezza”) indica la “grazia”, ossia l’amore di Dio che per primo si mette sulla strada dell’umanità ferita dal peccato. Scriveva Paolo, citando Isaia: “Io, il Signore, mi sono fatto trovare anche da quelli che non mi cercavano, mi sono rivelato anche a quelli che non mi invocavano”. In principio c’è, dunque, la luce salvifica divina che brilla nell’oscurità della “carne” peccatrice della persona umana. Ecco, a questo punto, apparire l’altra parola, pístis, “fede”. Essa è simile alle braccia aperte dell’uomo che accoglie la cháris, la grazia donata da Dio in Cristo. Illuminato dal Signore, l’uomo deve perciò rispondere con la sua libertà di adesione o di rifiuto. Egli può afferrare la mano divina che si stende a lui per sollevarlo fuori dalla palude del peccato. Da questo abbraccio nasce quella che Paolo chiama in greco la dikaiosyne, la “giustificazione”, ossia la salvezza. Allora l’uomo viene pervaso dallo Spirito di Dio che lo rende figlio adottivo del Padre celeste, che verrà invocato con l’appellativo familiare usato dal Figlio unigenito, Gesù: abba’, “babbo, padre”.

La fine della vita dell’Apostolo, come si è detto, non è registrata nel Nuovo Testamento che parla solo del suo appello alla cassazione suprema imperiale per essere giudicato, dopo l’arresto avvenuto a Gerusalemme, in quanto cittadino romano: sono eventi descritti negli Atti degli Apostoli. La tradizione, invece, attesterà il suo martirio per decapitazione a Roma. La storia dell’arte amerà raffigurarlo spesso in compagnia di Pietro, considerando entrambi come punti di riferimento basilari della fede cristiana. Di lui san Giovanni Crisostomo, Padre della Chiesa del IV secolo, affermava: “Come la fiamma, che si abbatte tra le canne e il fieno, trasforma nella propria natura ciò che arde, così Paolo tutto invade e tutto trasporta alla verità, torrente che tutto raggiunge, superando ogni ostacolo”.