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30/04/2018

San Giuseppe B. Cottolengo

Anche chi non conosce molto della biografia di questo singolare santo piemontese, conosce quel cognome come simbolo della carità. Se poi vive a Torino, sa che quel nome indica una specie di città nella città, dice “il Cottolengo” sapendo che non ha bisogno di ulteriori specificazioni. All’origine di tutto questo, un canonico che, spinto da un’imprevedibile circostanza, ha dato origine a una vicenda che non ha smesso di stupire ancora oggi il visitatore.

Giuseppe Benedetto nasce a Bra il 3 maggio 1786, primogenito di dodici fratelli. Come lui, altri due sarebbero diventati preti, uno diocesano e uno religioso domenicano. Avviato al sacerdozio (la vestizione dell’abito, un segno di tale decisione, si verifica il 5 dicembre 1802), avrebbe compiuto buona parte degli studi di filosofia e teologia restando in famiglia, causa la chiusura dei seminari determinata dalle guerre e dalle conquiste napoleoniche.
Tra il 1801 e il 1803 compie gli studi filosofici, quelli teologici tra il 1803 e il 1808. Dopo un breve soggiorno nel seminario di Asti nel 1806 per ricevervi la tonsura e gli ordini minori (la riforma napoleonica aveva assegnato Bra alla diocesi di Asti), vi avrebbe soggiornato per completare gli studi tra il 1808 e il 1810. Il 16 settembre 1810 riceveva il suddiaconato, il 30 marzo 1811 il diaconato e l’8 giugno 1811, nella chiesa del seminario di Torino, veniva ordinato prete.

Dopo una breve esperienza pastorale come vicecurato a Corneliano d’Alba, tornò a Torino per frequentare la facoltà di teologia, conseguendone la laurea il 14 marzo 1816. Dopo un altro periodo di attività pastorale a Bra e la partecipazione a un concorso per l’assegnazione di una parrocchia, che non superò, il 29 maggio 1818 venne eletto canonico della chiesa del Corpus Domini a Torino. Vi svolse soprattutto l’attività di predicatore e confessore, collaborando anche alle attività parrocchiali.

Nel 1827 si verifica il fatto che imprime la svolta definitiva alla sua vita. Di passaggio a Torino, una famiglia francese vive un momento di estrema difficoltà. La mamma, Giovanna Maria Gonnet, incinta e malata di tubercolosi, non trova nessun ospedale disposto ad accoglierla, dati i suoi problemi di salute. Nella povera camera d’albergo dove era alloggiata, viene assistita fino alla morte dal canonico Cottolengo: il quale coglie nell’evento quasi un segno della Provvidenza. Dedicherà tutta la sua vita all’assistenza dei più poveri dei poveri, quelli che nessuno vuole, rifiutati anche dagli ospedali.

Il 17 gennaio 1828 apre in via Palazzo di Città un’infermeria che verrà denominata “Deposito dei poveri infermi del Corpus Domini, sotto la protezione di san Vincenzo de’ Paoli”, il santo di cui Cottolengo è particolarmente devoto e che considererà sempre il suo protettore e l’esempio da imitare. Il Deposito è costituito da tre stanze di una casa detta “della Volta Rossa”, dove il santo fondatore colloca i primi quattro letti. Vi giungeranno gli ammalati più diversi, per la cui assistenza il canonico comincia a trovare anche delle volontarie e dei volontari laici, che rappresentano il primo nucleo delle future famiglie di religiose e religiosi alle quali darà vita il Cottolengo. Le prime religiose saranno chiamate “Figlie della Carità sotto la protezione di san Vincenzo de’ Paoli”.

Ma la presenza di ammalati considerati anche contagiosi determinerà una protesta che porterà al decreto di chiusura della casa, nel settembre 1831.
Il fondatore però non si perde d’animo e trasferisce le sue attività in una zona periferica, poco abitata e molto povera, che tra l’altro diventerà presto luogo di elezione anche di un altro noto santo piemontese, Giovanni Bosco: la zona di Valdocco, vicino al santuario della Consolata.  “I cavoli trapiantati riescono meglio”, avrebbe commentato con serena ironia il Cottolengo, il quale tra l’altro aveva nel frattempo rifiutato un altro ufficio ecclesiastico, che lo avrebbe allontanato dalla sua attività. Il trasferimento avviene nell’aprile 1832: la nuova casa prenderà il nome di “Piccola Casa della Divina Provvidenza, sotto gli auspici di san Vincenzo de’ Paoli”. I malati sarebbero andati velocemente aumentando, così come le strutture.
Si consolidava quell’opera che il fondatore metteva sotto la protezione della divina provvidenza, indicandolo già nel nome che veniva scelto: “Piccola Casa della Divina Provvidenza”, mentre il motto sarebbe stato preso da una frase di san Paolo: “Caritas Christi urget nos”, la carità di Cristo ci sospinge, ci stimola, non ci lascia in pace. E lo spingeva verso tutti i bisognosi che ricorrevano a lui, qualunque fosse la malattia o la condizione in cui si trovavano. Quelle poche stanze si trasformavano in una vera e propria città nella città, dove ognuno aveva un compito, e tutti, in base alle loro condizioni, cercavano di rendere qualche servizio. L’eccessivo ampliamento dell’opera avrebbe provocato tribolazioni e anche momenti di gravi difficoltà economiche, al punto che nel 1838 venne anche aperta un’inchiesta governativa, dalla quale però i commissari nominati dal re avrebbero solo concluso che si erano trovati di fronte a un uomo con una fede incredibile. D’altra parte, il fondatore ripeteva continuamente che a tutto pensava la provvidenza, se si aveva fiducia in lei; e per garantire la continuità dell’opera pensava alla fondazione di diverse famiglie di suore e di preti, compreso un piccolo seminario.

Questo veniva aperto il 30 maggio 1841, giorno di Pentecoste, “in quell’ora istessa che lo Spirito Santo tanti anni prima discendeva nel cenacolo sopra gli apostoli quivi congregati, cioè verso le dieci del mattino”. I giovani si sarebbero chiamati tommasini, poiché veniva loro assegnato come patrono san Tommaso d’Aquino. Vi erano ammessi anche quei ricoverati, “che mostrassero pietà ed ingegno”, per applicarli allo studio “avvezzandoli prima a fare il catechismo al letto degli uomini ammalati, ed iniziando agli studi della carriera ecclesiastica quelli che mostravano averne vocazione”.
Il Cottolengo aveva tra i suoi collaboratori alcuni preti che avevano prestato qualche servizio nella Piccola Casa e avevano poi deciso di restarvi definitivamente.

L’istituto delle suore veniva fondato nel 1830. Le religiose aggiungevano ai tradizionali voti di povertà, castità e ubbidienza, anche il voto di dedicare la vita all’assistenza dei malati. Fra le suore, un posto di grande importanza
era riservato alle comunità di clausura, sorte inizialmente per offrire un luogo di riposo a quelle suore che si erano sacrificate a lungo nel servizio degli infermi, o che non erano in grado di reggere alle fatiche richieste da tale assistenza: erano “addette a suffragare le anime purganti”. Sarebbero diventate uno degli elementi fondamentali fra le varie istituzioni, con una forma di vita contemplativa fondata sulla preghiera, quel respiro dell’anima che secondo Giuseppe Benedetto faceva vivere la Piccola Casa. La continua crescita della domanda di posti per ricoverati portava il Cottolengo ad aprire altre case nella cintura torinese. Vennero così aperte case a Chieri e Racconigi, mentre diverse delle sue suore andavano a prestare servizi in altri ospedali e ricoveri.

I vari reparti delle case di accoglienza venivano indicati come “famiglie”, e gli ammalati più gravi, soprattutto con gravi handicap mentali, erano chiamati “buoni figli” e “buone figlie”. Il fondatore era solito dire: “Tutti i poveri sono i nostri padroni, ma i più ributtanti sono i nostri padronissimi, sono le nostre vere gemme”. La sua fama di santità avrebbe spinto anche il re Carlo Alberto a concedergli alcuni onori di cui il santo non era certo desideroso: lo nominava cavaliere
dei santi Maurizio e Lazzaro, pochi giorni dopo avergli concesso il riconoscimento giuridico della Piccola Casa, che un giorno sarebbe stata definita “un perpetuo miracolo della divina provvidenza”.
Consumato dalle fatiche, l’uomo di Dio sarebbe morto a Chieri, presso uno dei fratelli, il 30 aprile 1842, ma la salma venne poi tumulata nella chiesa della sua Casa. È stato beatificato da Benedetto XV il 29 aprile 1917 e canonizzato da Pio XI il 19 marzo 1934.

(di Maurilio Guasco)