Sugli anni dell’infanzia e della giovinezza di questo santo sappiamo ben poco. Nato, secondo una tradizione locale peraltro non suffragata da prove inconfutabili, non oltre la metà del secolo VIII in quello che allora era il ducato longobardo del Friuli, a Premariacco presso Cividale, Paolino ricevette una solida formazione culturale e, dopo approfonditi studi teologici, fu ordinato sacerdote. Sicuramente doveva trattarsi di una personalità non comune perché ad un certo punto Carlo Magno, dopo aver conquistato il Friuli, nell’anno 776 da Ivrea gli dona alcuni beni fondiari confiscati a longobardi ribelli. Poco dopo troviamo il santo in Francia come artis grammaticae magister presso l’Accademia Palatina, dove fa amicizie importanti, soprattutto con Alcuino, abate di San Martino di Tours, amico intimo e consigliere ascoltato di Carlo Magno. Un gran numero di studenti formatisi in questa Accademia arrivarono a posizioni elevate. E difatti nel 787, Carlo Magno nomina Paolino patriarca di Aquileia che, celebre già per un concilio presiedutovi da sant’Ambrogio nel 381, nei primi decenni del secolo V era diventata metropoli di tutta la provincia della Venetia et Histria. La giurisdizione del patriarcato, che allora abbracciava all’incirca tutta la pianura friulana, ad eccezione della costa adriatica, si estendeva alle Chiese dell’Austria longobarda (Padova, Verona, Vicenza, Asolo, Trento, Feltre, Belluno, Ceneda, Concordia e Treviso) e dell’Istria dopo che era stata unita all’Impero carolingio. Benché mantenesse il nome di Aquileia, la residenza di Paolino era a Cividale. All’epoca in cui egli prende possesso della sua sede, si stava diffondendo in Spagna una dottrina teologica – detta “adozionismo” – che affermava Gesù essere Figlio adottivo del Padre come uomo, e invece Figlio naturale come Dio. Non era una controversia nuova perché già alla fine del IV secolo, sempre in Spagna, l’autorità ecclesiastica era dovuta intervenire contro questa eresia. Stavolta se ne erano fatti portatori l’arcivescovo di Toledo, Elipando, e quello di Urgel, Felice. Nella liturgia mozarabica, in uso durante la dominazione islamica, era stata inserita la locuzione in adoptione Filius. Tra il 785 e il 790, Urgel era stata occupata dai franchi. Il vescovo Felice, interpellato sulla questione da Elipando, si era espresso a suo favore, mentre papa Adriano I ne aveva duramente condannato le tesi, inviando poi una lettera a tutto il clero spagnolo in cui si prospettava il rischio di un nuovo nestorianesimo, l’eresia che ammetteva in Gesù due soggetti, il divino e l’umano, uniti tra loro solo moralmente e non ipostaticamente (di conseguenza, la Madonna non sarebbe stata la Madre di Dio). Dopo una prima condanna a cui Felice si sottomise, la questione fu ripresa nel 794 al concilio di Francoforte, dove i teologi italiani e quelli franchi si divisero i compiti: gli italiani, con a capo Paolino, svilupparono l’argomento dal pun to di vista delle Scritture; quelli franchi, guidati da Alcuino, discussero i testi patristici addotti da Elipando e dai suoi. Il santo condensò le sue argomentazioni nel cosiddetto Libellus sacrosyllabus contra Elipandum. Felice di Urgel, tuttavia, ad un certo momento tornò alla carica per spiegare a Carlo Magno le posizioni dei vescovi spagnoli. È di quel periodo l’ultima fatica di Paolino, i Libri tres contra Felicem, dopo la quale il vescovo spagnolo fu duramente condannato da Leone III, succeduto nel frattempo ad Adriano I, e convocato poi a Aquisgrana dove firmò una professione di fede cattolica e giurò sul Vangelo che vi si sarebbe attenuto scrupolosamente. Tra il 796 e il maggio 797, Paolino raccolse i vescovi suffraganei del patriarcato a Cividale per un concilio provinciale e nel discorso di apertura difese l’aggiunta del Filioque nel Simbolo nicenocostantinopolitano, dove si afferma che lo Spirito Santo “procede dal Padre e dal Figlio”. Egli si preoccupò di mostrare il fondamento teologico di quella espressione, ponendo l’accento sulla consustanzialità e l’inseparabilità delle persone della Trinità, per arrivare alla conclusione che lo Spirito Santo non può non procedere dal Figlio come dal Padre. A quei tempi, non solo la Chiesa d’Oriente, ma anche quella di Roma non usava questa parola nel Credo. Leone III ricorrerà a Carlo Magno che nell’809 farà dichiarare dogmaticamente corretto dal sinodo di Aquisgrana il Filioque, che costituisce ancora oggi motivo di controversia nelle dispute sull’ortodossia fra Occidente e Oriente. Paolino interpretò al meglio la sua funzione di metropolita: in proposito, scrisse la Sponsio episcoporum ad sanctam Aquileiensem sedem, con la quale i vescovi suffraganei si impegnavano a professare la vera fede, a osservare i canoni ecclesiastici, a obbedire al loro patriarca, ad essere diligenti nelle cerimonie liturgiche e nell’amministrazione dei beni ecclesiastici. Nel suo zelo pastorale, non si limitava a scrivere trattati destinati ai teologi, ma voleva che quelle stesse verità penetrassero nella mente e nel cuore dei fedeli. Per essi compose la Professio fidei, un poemetto giudicato dall’amico Alcuino “amabilissimo per la bellezza dell’eloquenza, fermissimo per la verità del contenuto”. Paolino morì a Cividale l’11 gennaio dell’802 e la sua salma fu deposta in quella cattedrale, dove riposa nell’altare della Pietà.
(di Angelo Montonati)