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19/09/2018

San Gennaro

Che sia la vigilia della prima domenica di maggio, data della traslazione delle ossa di san Gennaro, oppure il 19 settembre, anniversario del suo martirio, o anche il 16 dicembre, anniversario di una terribile eruzione del Vesuvio, che nel 1631 fu  fermata dall’intervento del santo. In una qualsiasi di queste date una folla enorme gremisce il duomo di Napoli. Sono presenti il vescovo della città, il sindaco, le autorità civili e militari, centinaia di sacerdoti e di suore e gente di tutte le età e di tutte le classi sociali. Non mancano turisti e curiosi. In prima fila le “parenti di san Gennaro” anziane donne che hanno dedicato le loro cure al suo culto e ora lo interpellano con un amore intriso di confidenza e di autorità. “Faccia e gialluta!” lo chiamano; “Munacone, Guappone… Fà o miraculo! Nun te fa pregà…”, ordinano. Due antichissime ampolline racchiudono il sangue del santo e sono in un reliquiario del seicento che il vescovo della città devotamente mostra ai fedeli alzandolo verso il cielo. L’attesa è spasmodica e raramente è stata delusa. I due grumi pietrificati si sciolgono. Nelle ampolle il sangue diventa vivo e pulsante come appena sgorgato dalle vene. Il popolo esulta, i sacerdoti cantano inni di ringraziamento, le campane suonano e diffondono la notizia che le televisioni locali annunzieranno subito dopo. “San Gennaro ha fatto il miracolo, ci ama ancora”. I tanti peccati che commettiamo non sono riusciti a inaridire il suo amore.
Sappiamo pochissimo della vita di questo santo che è stato uno dei primi martiri cristiani della Campania. Le scarse notizie sono state tramandate dalle Passiones, racconti che descrivono la vita dei santi e che comparvero verso il IV secolo. Esse avevano un fine più educativo che storico. I fatti che descrivono non sono rigorosamente autentici. Per quanto riguarda san Gennaro abbiamo due Passiones, una detta “bolognese”, l’altra detta “vaticana” a seconda delle biblioteche in cui sono state trovate. I due racconti concordano nel dirci che san Gennaro era vescovo di Benevento, in quei primi anni del III secolo, mentre a Roma era Imperatore  Diocleziano. Concordano anche nel tramandarci i motivi, il luogo e la data del suo martirio.

Come i suoi predecessori Diocleziano odiava i cristiani. Emise una serie di editti contro di loro, escludendoli dalle cariche pubbliche, imponendo la distruzione dei loro testi religiosi e delle loro chiese. Con crudeltà sempre maggiore condannò a morte quelli che si dichiaravano seguaci di Cristo. A Roma i martiri erano già una schiera ma a Napoli c’era un clima di maggiore tolleranza. Bastava che i cristiani non ufficializzassero la loro fede, che celebrassero i loro riti nelle catacombe. Per avere notizia del primo martirio in Campania dobbiamo fare capo a quel 19 settembre 305, quando furono uccisi Gennaro e i suoi amici. A Pozzuoli, una cittadina di mare a pochi chilometri da Napoli, il culto di una divinità pagana, la Sibilla Cumana, diventava sempre più diffuso. Sosso era un giovane diacono e ne era vivamente preoccupato. Sempre più pubblicamente esortava la gente a non perdere di vista il Dio vero. Più volte aveva confidato la sua angoscia all’amico Gennaro: e questi, un giorno decise di andarlo a trovare insieme a Fausto e Desiderio, due cristiani di Napoli. Arrivati a Pozzuoli appresero che Sosso era stato incarcerato. Gennaro non esitò a gridare pubblicamente il suo sdegno: “Sosso non ha commesso nessun reato. È un uomo giusto, la sua unica colpa è essere cristiano…”. Gennaro affermò con orgoglio di essere un vescovo cristiano e Fausto e Desiderio gli fecero eco: “Siamo cristiani, e adoriamo l’unico Dio vero”. Il loro coraggio turbò Dragonzio, rappresentante di Roma. Lui poteva anche tollerare qualche pavido cristiano che andava a pregare sottoterra, nelle catacombe. Non poteva consentire che quei tre giovani fossero così fieri e sicuri. “Se non rinnegherete questo vostro Dio io vi condannerò a morte”, minacciò. I tre si guardarono. Sorridevano e avevano  negli occhi una luce che Dragonzio non sopportava. “Non possiamo rinnegare nostro Signore”, spiegò quietamente Gennaro, “Lui è l’unico vero Dio e noi lo amiamo!”. Era abbastanza perché fossero condannati a morte. Dragonzio stabilì che sarebbero stati decapitati: Sosso avrebbe subito la stessa sorte. La mattina del 19 settembre 305 i quattro giovani vennero condotti in un campo fuori città, vicino alla solfatara, una miniera di zolfo. Una folla silenziosa osservava il loro passaggio. Una voce spezzò il silenzio: “Che cosa hanno fatto per essere condannati a questa pena orribile?”. Procolo, un diacono della Chiesa di Pozzuoli osò porre questa domanda ad alta voce. Molti si allontanarono da lui, terrorizzati. Due ragazzi, però, Eutichete e Acunzo non riuscirono a trattenersi. “Non hanno fatto niente”, gridarono, “Sono innocenti!”. Tutti e tre i giovani furono condannati alla stessa pena di coloro che avevano difeso. I sette martiri andarono incontro alla morte con dignità. Per sette volte la mannaia del boia piombò sulle loro teste e nel raccapriccio di chi assisteva si udiva solo invocare il nome di Dio. Il sangue dei primi martiri della Campania arrossò la terra di Pozzuoli. Appena le guardie si allontanarono una donna si avvicinò. Seguendo una pia usanza dell’epoca raccolse con una spugna alcune gocce del sangue del vescovo Gennaro e le versò in due piccole ampolle di vetro. Certamente non immaginava di essere lo strumento di un miracolo sconvolgente che ancora oggi solleva tanti interrogativi. Alcuni devoti attesero che scendesse la sera per provvedere alla sepoltura dei poveri corpi decapitati. La legge romana negava la sepoltura ai condannati a morte e se fossero stati scoperti sarebbero stati uccisi: probabilmente è questo il motivo per cui il corpo del santo venne sepolto in un podere che si chiamava “Marciano”, distante pochi passi dal luogo del martirio. In quel luogo fu poi costruita una basilica dedicata a san Gennaro.

Fino al giorno del suo martirio la vita di Gennaro è povera di notizie. Ma dalla sua morte riempie la storia. Nel 313 l’editto di Costantino liberalizzò il Cristianesimo. La tomba di Gennaro al Marciano era meta di pellegrinaggi e molti sostenevano di avere ottenuto miracoli per la sua intercessione. Nel 431, per disposizione del vescovo partenopeo Giovanni I, le ossa di san Gennaro furono traslate a Napoli, in solenne processione e sepolte nelle catacombe sotto la collina di Castellammare. In queste catacombe, dette di san Gennaro, esistono affreschi antichissimi che riproducono episodi della vita del santo. In uno di essi Gennaro ha il capo aureolato. Il culto di san Gennaro si diffonde, il popolo di Napoli ha fiducia nel suo amore e crede nella sua intercessione. Egli dimostrò subito di ricambiare quell’amore. Il 5 novembre 472 ci fu una terribile eruzione e il popolo si riversò nelle catacombe, supplicando il santo di intervenire. Da un momento all’altro il Vesuvio si placò. I cittadini di Benevento invidiavano la gloria che veniva data a Napoli dal possesso delle reliquie del loro santo vescovo. Decisero di trafugarle e, nell’831, il principe longobardo Sicone riuscì nell’impresa. Dopo alcuni giorni di assedio, riuscì a penetrare nelle catacombe, trafugò la preziosa urna e la portò a Benevento. La disperazione dei napoletani fu immensa. L’unico conforto era che l’urna che conteneva le ossa del cranio del santo e le ampolle che contenevano il suo sangue non erano state rubate perché erano custodite in Cattedrale. La gente continuava a recarsi nelle catacombe a invocarlo e il vuoto creato dalla sua assenza era pieno di amore e di nostalgia. San Gennaro avrebbe compensato in maniera miracolosa la fedeltà del popolo di Napoli. L’agosto 1389 era particolarmente torrido. Una siccità senza scampo aveva inaridito i raccolti, ridotto alla miseria anche le famiglie agiate. Insieme alla fame si diffondevano malattie e disperazione. Il vescovo ordinò che venisse esposta nel duomo la teca con le ampolle che contenevano il sangue di san Gennaro. Nonostante il caldo e lo sfinimento, la popolazione accorse, il
duomo si riempì di gente. Gli occhi dei fedeli fissavano le ampolle tra le mani del vescovo, sull’altare. Si udivano pianti e preghiere. Improvvisamente, sotto gli occhi di migliaia di persone, il sangue rappreso nelle ampolle si sciolse. Dopo quel miracolo sorprendente il popolo di Napoli visse un periodo sereno e ne attribuì il merito alla protezione del santo. Il suo culto divenne sempre più diffuso. Quando nel 1480 si seppe che era stata ritrovata nel santuario della Madonna di Montevergine l’urna con le sue ossa, che non stava più a Benevento, i napoletani decisero che l’avrebbero riportata nella loro città. Il miracolo dello  scioglimento del sangue si era ripetuto ogni anno, almeno in due occasioni. Quando avvenne sotto gli occhi di Ferdinando I d’Aragona che regnava su Napoli da quasi venti anni, questi, profondamente commosso, promise a se stesso e al popolo che avrebbe restituito il corpo di san Gennaro alla sua Napoli. Supplicò il cardinale Carafa perché intercedesse presso papa Innocenzo VIII, ma la richiesta non venne esaudita. Il sogno fu realizzato dal successore di Ferdinando I, Ferdinando II d’Aragona quando il papa era Alessandro VI. Il protettore di Napoli poteva finalmente tornare a casa.  

(di Natalia Forte)