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13/06/2013

Sant’Antonio di Padova

Il nome originario del grande taumaturgo e predicatore sant’Antonio di Padova è Fernando Bulhão, nato a Lisbona da una nobile famiglia, che – forse a causa della semiomonimia – pretendeva di discendere da Goffredo di Buglione. Si tramanda, anche grazie alla testimonianza del notaio e cronista padovano Rolandino de’ Passeggeri, che suo padre era Martino Alfonso, cavaliere, e sua madre Maria. Ignota la sua data di nascita: ma dal trecentesco Liber miraculorum se ne è dedotta quella del 15 agosto 1195, che è tradizionalmente tramandata. Poche le notizie sui suoi primi anni di vita, per i quali attingiamo alla biografia più antica, la Vita prima o Assidua, compilata da un anonimo frate appena a un anno dalla morte del santo e tratta in gran parte, a quel che il suo autore testimonia, dalle memorie di Soerio II Viegas, vescovo di Lisbona tra 1210 e 1232.
Le congetture dei biografi posteriori, basate in parte sulla notizia – verosimile, ma tutt’altro che certa – dei suoi illustri natali, in parte sul topos della giovinezza traviata, e probabilmente sull’analogia rispetto alla vita di Francesco d’Assisi, hanno tracciato l’ipotetico ritratto di un giovane avviato alla carriera delle armi e tentato dal lusso e dal peccato, che però finisce con lo scegliere con decisione la via della testimonianza di fede. In effetti, sembra che egli fosse quindicenne quando, nel 1210, venne accolto tra i canonici regolari agostiniani di Lisbona, titolari, per volontà di re Alfonso I del Portogallo e della regina Mafalda di Savoia, dell’abbazia di San Vincenzo, appena fuori città: un importante centro di studio e di apostolato.
I quindici anni erano ordinariamente, nel XII secolo, quelli in cui si veniva anche armati cavalieri e insomma quelli della maggiore età. Considerando che si dice fosse il primogenito, una condizione che di solito disponeva a raccogliere l’eredità familiare e quindi a restare nel mondo, dietro la sua scelta religiosa potrebbe effettivamente esserci una ferma vocazione.
Che il giovane Fernando si fosse rifugiato entro le sue mura può adombrare sul serio una scelta fatta, almeno inizialmente, contro la volontà familiare, o almeno paterna. Che in effetti ci fosse una certa tensione sembra confermato dal racconto di frequenti visite di amici, che distoglievano Fernando dalla preghiera e dallo studio (e che forse erano latori di istanze volte a farlo rientrare nel suo ambiente originario). Egli riuscì poi a farsi trasferire in un’altra casa agostiniana, Santa Croce di Coimbra.

La vita della comunità agostiniana di Coimbra era però turbata dalle tensioni interne delle quali era a quel che sembra responsabile un priore corrotto, a nome Giovanni. Stanco d’un clima disordinato e comunque inquieto, e d’altro canto sconvolto per le notizie che venivano dal Marocco – dov’erano stati martirizzati i cinque frati francescani Berardo, Pietro, Ottone, Adiuto e Accursio, ch’erano passati per il Portogallo dove erano stati ben accolti dalla regina Urraca che aveva affidato loro l’eremo di Sant’Antonio di Olivares – decise di passare nel 1220 al nuovo Ordine, assumendo il nome del patrono di quel primo insediamento francescano lusitano. Il passaggio dagli agostiniani ai francescani non dovette essere indolore. I suoi ex confratelli gli rimproverarono probabilmente il peccato di superbia: aveva sete di santità, cioè sete di gloria. Dal canto suo, Antonio sentiva semmai con forza la vocazione alla predicazione presso gli  infedeli e al martirio, sul modello dei cinque frati minori uccisi in Marocco. Si indirizzò pertanto al suo diretto superiore, fra Giovanni Parenti, allora provinciale di Spagna e del Portogallo, che aveva incontrato il giorno della traslazione all’eremo di Olivares dei resti dei martiri del Marocco e che l’aveva accolto nell’Ordine dei frati Minori: gli confidò il suo desiderio e ottenne il permesso di partire. Nell’autunno del 1220 s’imbarcò con un confratello, fra Filippino di Castiglia, per il Marocco. Ma la vicenda africana si sviluppò in un modo molto diverso da com’egli avrebbe voluto. Colpito da malaria, si lasciò convincere a rientrare in Portogallo: ma, durante il viaggio di ritorno, una tempesta lo spinse sulle coste della Sicilia orientale. Lì, dai confratelli messinesi, egli apprese che Francesco stava convocando i frati alla Porziuncola di Assisi per il Capitolo generale di Pentecoste del 1221, quello durante il quale sarebbe stato presentato il testo della Regola. Decise pertanto di recarsi a Assisi, insieme con i francescani di Messina, e incontrare finalmente il fondatore.

È molto probabile che in realtà non vi sia stato alcun incontro diretto, in quell’occasione, tra Francesco e Antonio. Ma il frate portoghese entrò comunque in rapporto con fra Graziano, ministro provinciale di Romagna, che lo accolse con lui e lo destinò all’eremo di Montepaolo tra Predappio e Castrocaro, sulle colline che da Forlì guardano verso la Toscana. Lì condusse l’esistenza del novizio, svolgendo lavori umili e pesanti: ma sembra che quasi per caso gli capitò di predicare, senza alcuna esperienza, nella cattedrale di Forlì, durante la quaresima o (secondo altri) alla fine del 1222. L’impressione provocata dalla sua spontanea eloquenza – nutrita tuttavia dai severi studi condotti nel decennio dell’esperienza presso i canonici agostiniani – fu tale e tanta ch’egli divenne di colpo famoso: e pare che proprio da Assisi giungesse l’ordine di utilizzare da allora in poi le capacità del frate portoghese nella predicazione.La congiuntura esigeva in effetti abili e colti predicatori. Ormai la lotta contro il catarismo si era scatenata dappertutto: e, dal momento che i propagandisti catari erano infiltrati tra gli oppositori  politici del papato, nelle città comunali le polemiche politiche e le controversie religiose s’intrecciavano e si mischiavano. Ma Antonio era fermamente convinto che, per adeguatamente contrastare gli eretici che disponevano di abili predicatori, fosse necessaria una preparazione teologica che mancava quasi del tutto ai preti secolari, la pessima taciturnitas dei quali era tristemente celebre, ma anche ai frati minori condotti all’ignoranza dalla loro stessa dedizione alla povertà assoluta. Su questo punto, Antonio entrò in contrasto con Francesco che, alla fine, dovette tuttavia cedere alle insistenze di quel portoghese ostinato che egli definiva “il suo vescovo”: e gli consentì di fondare nel 1223 il primo studentato teologico francescano a Bologna, presso il convento di Santa Maria della Pugliola.

In quell’anno, l’attività di Antonio come predicatore fu infaticabile: aveva ricevuto l’incarico di lavorare in un vastissimo territorio comprendente la Romagna, l’Emilia, la Marca trevigiana, la Lombardia e la Liguria. Il suo primo obiettivo fu la città di Rimini, dove forte era la presenza ereticale: qui ebbero luogo i primi celebri miracoli di Antonio, come quello d’una povera mula che il padrone, un eretico, aveva affamato, per offrirle poi una ricca porzione di biada dinanzi al santo e sfidare quest’ultimo a distoglierla dal pasto; ma l’animale, trascurando il cibo, s’inginocchiò dinanzi a Antonio e all’eucarestia ch’egli recava. Il miracolo s’inscrive nell’ambito dell’impegno della Chiesa di quegli anni a diffondere l’adorazione del mistero eucaristico, negato dagli eretici. Un altro celebre miracolo fu quello della predicazione ai pesci alla foce del fiume Marecchia, pesci che il santo convocò ad ascoltarlo in sostituzione degli uomini perché gli eretici fuggivano il confronto con lui. La fama dell’eloquenza di Antonio e dei miracoli che ne accompagnavano la predicazione convinse papa Onorio a inviare il frate in Francia, dove la lotta contro i catari era all’acme. Antonio giunse in terra di Francia nel tardo autunno del 1224 per rimanervi circa un biennio, predicando soprattutto nelle terre dove i catari erano ancora più forti, cioè in Provenza, Linguadoca e Guascogna. Lì, egli si scontrò, come in Italia, non solo con l’agguerrita preparazione dei propagandisti eretici – tuttavia ormai fiaccati dalle armi crociate – ma anche e soprattutto con l’ignoranza e la corruzione del clero della Chiesa ufficiale: e non esitò a rinfacciarle ai prelati riuniti, nel novembre del 1225, nel sinodo di Bourges. Il padre provinciale francescano di Provenza, il fiorentino Giovanni Bonelli, lo nominò dapprima guardiano del convento di Le Puy e quindi custode (cioè padre superiore) dei conventi del Limousin. 

In quella regione, in una grotta presso Brive, egli trovò uno dei suoi diletti luoghi di meditazione; e fu lì che ebbero luogo anche i suoi miracoli più famosi, come quello della bilocazione.
La notizia del trapasso di Francesco, e del Capitolo generale indetto da frate Elia da Cortona per discutere dell’avvenire dell’Ordine, privato del fondatore, obbligò anche Antonio, in quanto padre custode dei conventi del Limousin, a rientrare in Italia. Il viaggio, iniziato alla fine dell’inverno del 1227 e condotto in parte per via di mare, non fu agevole: un nuovo naufragio lo sospinse di nuovo sulle coste siciliane, come circa sette anni prima, e lì rimase per qualche tempo, per raggiungere comunque il Capitolo per la Pentecoste, alla fine di maggio. In quel frangente, venne eletto maestro generale dell’Ordine fra Giovanni Parenti, che come superiore provinciale della penisola iberica aveva accolto Antonio nell’Ordine. Ora, egli lo nominò ministro provinciale per l’Italia settentrionale. Assunto con grande serietà il nuovo impegno, Antonio visitò sistematicamente i conventi della grande provincia, lasciando una scia di ricordi leggendari e di miracoli tra cui alcuni, come quello di Gemona, legati a episodi di morti resuscitati. Nella quaresima del 1228 giunse quindi a Padova, che da allora in poi sarebbe rimasta la sua residenza preferita, anche se avrebbe talvolta dovuto lasciarla per varie occasioni: partecipare come paciere – con scarso successo – alle dispute che stavano lacerando l’Ordine francescano, diviso ormai tra frati rigoristi e frati favorevoli a una sua progressiva clericalizzazione; e addirittura per recarsi a Roma, presso Gregorio IX, che lo apprezzò come predicatore ma che non dovette restare troppo convinto dal suo modo d’impostare la questione del ruolo dell’Ordine dei frati Minori del dopo Francesco. Fu a Assisi per la fondazione della basilica destinata a accogliere il corpo del fondatore, nel 1228, e per la sua tumultuosa inaugurazione, nel 1230: ma, a parte la preghiera presso la tomba del poverello, non è chiaro se davvero frequentasse ormai volentieri sia il centro della cristianità, sia quello dell’Ordine. Sul finire dell’estate del 1230, Antonio rientrò a Padova, presso il convento di Santa Maria Mater Domini, posto accanto al luogo dov’è oggi la basilica eretta in suo onore. Il suo mandato di provinciale era per sua fortuna scaduto. Rimase a Padova dove, poco fuori città, ad Arcella, sorgeva un convento di clarisse con accanto un ospizio di frati che il santo ampliò grazie a un pezzo di terra donatogli dal vescovo. Qui amava ritirarsi a pregare e a studiare, e qui avrebbe cominciato a scrivere i Sermoni domenicali. Intanto andava raccogliendo i suoi più cari amici in una specie di confraternita dedita alle opere di misericordia che, dal nome della chiesa di Santa Maria della Colomba dov’erano soliti ritrovarsi, presero il nome di “colombini”.

Tuttavia, il suo non fu un soggiorno pacifico e sereno. Continuava a predicare, e lo faceva con ardore e anche con energia, in una città percorsa dagli odi di parte, e al tempo stesso caratterizzata dall’opulenza di alcuni e dalla  miseria di troppi. Predicava contro le fazioni politiche, contro la violenza, contro l’usura. È rimasta famosa la quaresima dal 6 febbraio al 23 marzo del 1231, che fu il momento più alto e intenso di tutta la sua prestigiosa vita di predicatore e di taumaturgo: tanto forte fu l’effetto delle sue parole e dei suoi miracoli, che egli giunse a determinare anche l’inserzione di alcune norme a favore degli indebitati a causa dell’usura negli statuti cittadini. Il suo unico smacco fu un incontro, a Verona, con Ezzelino III da Romano, cui egli si era rivolto per intercedere a favore di Rizzardo di Sanbonifacio, che il fiero signore ghibellino aveva fatto imprigionare nonostante fosse suo cognato. Tuttavia, Ezzelino rispettò il saio di Antonio: e ciò, da parte sua, non era poco.

Stanco, il santo era solito ritirarsi sempre più spesso una quindicina di miglia fuori Padova, a Camposampiero, dove sua residenza era un grande albero, un noce. Lì compì alcuni famosi miracoli, rivolti specie a risanare bambini; e lì fu visto appunto, una volta, cullare tra le braccia il Bambino Gesù. Fu lì che il 13 giugno 1231 lo colse un malore; si cercò di trasportarlo a Padova, secondo i suoi desideri, ma non ce la fece a giungere in città. Passò infatti da questa vita all’eternità mentre era ricoverato ad Arcella, nel convento delle clarisse. La gente del posto ne contese il  corpo, armi alla mano, ai padovani: e solo il 17 successivo, grazie alla mediazione del vescovo e dei francescani, fu possibile trasportarlo in Santa Maria Mater Domini per la sepoltura.

L’arca di marmo nella quale fu deposto divenne immediatamente meta di continui pellegrinaggi, che non si sono mai arrestati fino al tempo presente, e in occasione dei quali si sono registrati vari miracoli. Acclamato santo “a furor di popolo” ad appena un mese dal trapasso, Antonio fu canonizzato nella cattedrale di Spoleto il giorno della Pentecoste del 1232 in presenza di papa Gregorio IX. Nel 1263, mentre ministro generale dell’Ordine era Bonaventura da Bagnoregio che presiedette alla translatio, Antonio ricevette definitiva dimora nel nuovo santuario, che gli era stato edificato accanto all’impianto della chiesa di Santa Maria Mater Domini.

Pio XII, che nel 1946 ha annoverato sant’Antonio tra i dottori della Chiesa cattolica, gli ha conferito il titolo di doctor evangelicus, considerando la ferma e costante adesione al Vangelo nel tessuto delle sue prediche. La grande basilica antoniana di Padova viene comunemente ricordata in città come “il Santo”. Antonio viene onorato dalla Chiesa cattolica il 13 giugno; a Padova, in occasione della ricorrenza, si svolge un’imponente celebrazione con una grande processione, a cui partecipano innumerevoli pellegrini.

(Testo di Franco Cardini)