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RICORRENZA DEL GIORNO

13/11/2012

sant'agostino

Vescovo e dottore della Chiesa, Agostino è un santo così familiare e attuale che sembra appartenere al nostro tempo. Egli fu invece un uomo del IV secolo e la sua vita trascorse quasi interamente in Africa. La terra che gli diede i natali faceva parte di uno di quei vasti territori dell’Africa del Nord su cui Roma estendeva da tempo il proprio dominio e che insieme costituivano la diocesi africana, ossia una delle dodici grandi aree amministrative in cui era stato suddiviso l’Impero romano al tempo della riforma di Diocleziano. La diocesi africana – ripartita a sua volta in sei province – aveva come più importante punto di riferimento la provincia proconsolare, con capitale Cartagine. Essa era il cuore dell’Africa romana e, come erede dell’antica provincia africana, veniva considerata la provincia d’Africa per eccellenza. In un piccolo centro di questa provincia, Tagaste (l’odierna Souk-Ahras), Agostino naque il 13 novembre 354. Situata nell’altopiano della Numidia, nella valle della Bàgrada – fiume teatro di celebri battaglie – Tagaste era un villaggio agricolo e commerciale, trovandosi al crocevia delle grandi strade romane che collegavano Ippona a Cartagine; Cartagine a Cirta, Sitifis, Cesarea; Ippona a Tagaste. Godeva dello statuto di municipio almeno dal tempo di Settimio Severo – conservandolo ancora nel IV secolo – ed era inoltre sede vescovile. La famiglia di Agostino apparteneva alla classe media – generalmente africana di stirpe ma romana di lingua e di cultura –, costituita per lo più da piccoli proprietari che avevano anche incarichi di responsabilità nella gestione della cosa pubblica. La madre, Monica, era una donna di grandi virtù. Cresciuta in una famiglia cristiana e educata con rigida disciplina da un’anziana serva, al servizio di casa da lunghissimi anni, essa manifestava doti di bontà e discrezione, dolcezza ed equilibrio, generosità e forza d’animo. Il padre, Patrizio – membro del consiglio comunale – aveva sposato Monica non appena essa aveva raggiunto l’età matura per le nozze e ne aveva avuto tre figli: Agostino, Navigio e una figlia di cui si ignora il nome. Padre affettuoso, benché di temperamento esuberante e facile all’ira; tenero con la moglie, anche se non di rado infedele; tollerante e aperto all’educazione cristiana dei figli, per quanto fosse pagano, Patrizio era un uomo che Monica era riuscita lentamente a plasmare, con pazienza e tenacia, così che si era creato in famiglia un clima d’intesa e armonia ammirato da tutti.

Agostino compie i primi studi a Tagaste  (359-364); li prosegue nella vicina Madauro (365-369), mostrando una grande predilezione per gli scrittori latini (specialmente Virgilio), ma nessun trasporto (o quasi) per la lingua greca, di cui non acquisterà mai piena padronanza. Nel corso dell’estate del 369 lascia Madauro e torna a Tagaste, dove trascorre un anno d’inattività e di ozio, nell’attesa che il padre si procuri i fondi necessari per inviarlo a Cartagine a proseguire gli studi. Grazie a Romaniano, amico facoltoso che gli mette generosamente a disposizione i mezzi per mantenersi negli studi, si reca a Cartagine (370) per compiervi il quadriennale corso di retorica. Qui le passioni giovanili e le seduzioni dell’ambiente spingono Agostino a unirsi a una donna, con la quale convive per quattordici anni e dalla quale avrà (372) un figlio, di nome Adeodato. Nel 373 la lettura dell’Ortensio di Cicerone accende nel suo animo il desiderio forte di conoscere e comprendere tutto del mondo e dell’uomo. Dapprima si rivolge alle Scritture, che tuttavia non riesce a intendere e apprezzare; quindi si aggrappa alle seducenti promesse del manicheismo, al quale rimarrà legato per nove anni. Ultimati gli studi, rientra a Tagaste, conducendo con sé la compagna e il figlio. Poiché Monica rifiuta di accoglierli, trova ospitalità presso l’amico Romaniano, che gli offre anche l’opportunità di aprire in paese una scuola di grammatica e retorica. Agostino vi insegnerà per due anni. Nel 376 lascia Tagaste – ambiente troppo piccolo per le sue ambizioni e diventatogli oltretutto insopportabile dopo la morte di un carissimo amico – e fa ritorno a Cartagine, dove insegna retorica per otto anni. Nel 384 decide di lasciare anche Cartagine e di partire alla volta di Roma, dove però non ha molta fortuna. È colpito da una grave malattia che quasi lo conduce alla morte; gli studenti “dimenticano” di pagare il conto; la dottrina manichea gli si rivela una grossolana impostura. Prende al balzo l’occasione di trasferirsi a Milano, inviatovi dal prefetto di Roma, Quinto Aurelio Simmaco, a ricoprire la carica di retore. Di lì a poco incontra il vescovo Ambrogio, si converte (386) e riceve il battesimo (387). Alcuni mesi dopo, con la madre, il figlio e alcuni amici, si mette in viaggio per fare ritorno in patria. A Ostia, poco prima dell’imbarco, gli muore la madre. Giunto in Africa, torna al paese natale e lì fonda una piccola comunità monastica. Ma un giorno, recatosi a Ippona per incontrare un amico, gli capita di entrare nella cattedrale mentre l’anziano vescovo Valerio espone ai fedeli la necessità urgente di poter avere un altro presbitero. Riconosciuto, Agostino è presentato al vescovo e, per acclamazione popolare, viene consacrato sacerdote (391). Quattro anni dopo (395) Valerio, nel timore che altre chiese locali prive di vescovo possano scegliere Agostino come loro pastore, ottiene da Aurelio, primate d’Africa, la nomina di Agostino a vescovo ausiliare di Ippona, dove, nel 397, gli succede come vescovo. Da quel momento inizia una lunga e intensa attività pastorale, volta innanzitutto a mettere al riparo i deboli nella roccaforte della fede e a combattere per essa con tutte le forze della ragione.

Il compito di generare, nutrire, difendere e fortificare la fede è, infatti, quello che lo impegna su più fronti (la predicazione, la catechesi, l’opera polemica e apologetica) e che più assiduamente sollecita da lui studio ed elaborazione dottrinale. Prima i manichei, poi i donatisti, infine i pelagiani lo sottopongono a un’estenuante fatica intellettuale e pastorale. Nonostante i numerosi impegni, Agostino riesce a mettere mano anche ad alcune grandi costruzioni teologiche, esegetiche e spirituali. Fra le centodiciassette opere certe che di lui ci sono pervenute (non a caso egli viene venerato, oltreché come patrono dei teologi, anche dei tipografi), bisogna ricordarele sue opere maggiori: Le Confessioni, La Trinità e La città di Dio. Fino all’ultimo Agostino si spende per il bene della Chiesa e dei fratelli. La malattia che lo condurrà alla morte lo assale nel terzo mese dell’assedio di Ippona da parte dei vandali di Genserico. La sua forte fibra – già duramente provata dalla caduta di Roma – non regge sotto l’urto violento delle nuove barbarie. Gli ultimi mesi di Agostino sono un bagno di pianto e amarezze infinite per gli eccidi, le distruzioni, le torture, i sacrilegi che riducono la città all’umiliazione e all’impotenza. Solo conforto sono la preghiera e la lettura dei salmi penitenziali, fatti affiggere su grandi fogli alla parete di fronte al letto in modo da poterli meditare stando coricato. Così, nell’assoluto raccoglimento, Agostino si prepara all’incontro col Signore. La morte lo coglie il 28 agosto 430, all’età di 76 anni. Le sue spoglie e la sua biblioteca– miracolosamente sottratte ai vandali durante l’evacuazione e l’incendio di Ippona – sono trasportate a Cagliari, probabilmente ad opera del vescovo Fulgenzio di Ruspe, al tempo del suo primo o secondo esilio in Sardegna, (508-509, o518-519) assieme ad altri vescovi africani. Due secoli dopo (720-725?), il re longobardo Liutprando riesce a riscattare “a gran prezzo” dai saraceni la salma di Agostino e a trasferirla da Cagliari a Pavia, dove tuttora riposa nella basilica di San Pietro in Ciel d’Oro, sotto la mensa dell’altare, davanti a quell’arca marmorea che è probabilmente il monumento più bello eretto alla gloria di Agostino. Per misteriose coincidenze, l’avventura terrena del santo si conclude dunque non lontano dai luoghi della sua conversione. È bello, in fondo, che il suo ultimo approdo terreno sia là dov’egli era nato spiritualmente alla vita. Come un ritorno alla patria dell’anima, alla quale il santo doveva tutto ciò che poi è diventato e alla quale, di riflesso, anche tutti noi dobbiamo quanto Agostino ci ha lasciato in eredità.

(Giuliano Vigini)