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RICORRENZA DEL GIORNO

20/05/2013

Lo Statuto dei Lavoratori (1970)

Autunno 1969, il cosiddetto “autunno caldo”: migliaia e migliaia di lavoratori, affiancati dagli studenti, occupano le fabbriche, incrociano le braccia davanti ai cancelli, manifestano nelle strade, fanno sentire la propria voce. 
20 maggio 1970: viene emanato lo Statuto dei Lavoratori, l’insieme delle norme che regolano e fondano i rapporti tra dipendenti , datori di lavoro e rappresentanza sindacale.
Era inevitabile, in qualche modo giusto: dopo il fascismo e il boom economico, si era affermata l’esigenza di ripensare il mondo del lavoro in termini non solo economici ma politici, se non proprio culturali.
Il lavoratore è colto nella sua centralità, di forza-lavoro e di essere umano (con aspirazioni, desideri, bisogni).
Il sindacato è riconosciuto nel suo ruolo di “cuscinetto”: ascolta, fa proprie e interpreta le esigenze della classe operaia, le presenta ai proprietari, cerca  una mediazione.
Il datore di lavoro è valorizzato come soggetto attivo, propositivo, come motore dell’economia nazionale.
 Lo Statuto contiene norme generali e applicazioni specifiche. In particolare, il Titolo Uno si rivolge alla libertà e dignità del lavoratore (“libertà di opinione”, “tutela della salute e integrità fisica”, “forme di controllo improprie”) mentre i Titoli Due e Tre sono relativi alla libertà e all’attività sindacale (con il famoso e discusso articolo 18, sul “reintegro nel posto di lavoro”).
Sono passati più di quarant’anni. Molto è stato fatto, molto si sta facendo. Al di là delle soluzioni scelte, proposte ed elaborate, la questione rimane sempre la stessa: “Il lavoratore non è una merce”, dice monsignor Bregantini, presidente della Commissione Lavoro della Cei, facendo riferimento all’enciclica sociale Rerum Novarum (1891), “non lo si può trattare come un prodotto da dismettere, da eliminare per motivi di bilancio, perché resta invenduto in magazzino… C’è una parola chiave che deve rientrare: dignità”.