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RICORRENZA DEL GIORNO

22/07/2013

La strage di Oslo (2011)

Se dici Norvegia pensi ai fiordi, al grande mare del Nord, alle casette di legno, ai boschi, alla neve, alle renne, ai salmoni; pensi al silenzio, alla quiete; pensi al circolo polare artico, all’aurora boreale; pensi allo stato sociale, alla ricchezza; pensi alle persone: disponibili, riservate, sorridenti. Pensi a un mondo “ideale”, a una società più giusta. Pensi a qualcosa che non potrà mai cambiare.
Poi, all’improvviso, succede.
Oslo, 22 luglio 2011, ore 15.26:
un’autobomba esplode nei pressi del Regjeringskvartalet, il quartier generale del governo. Otto persone perdono la vita, molti i feriti.
Isola di Utoya (lago di Tyrifjorden), circa due ore più tardi:
un uomo vestito da poliziotto sbarca sull’isola, raduna i ragazzi che fanno parte dell’organizzazione giovanile del partito laburista. Spara: ne uccide sessantanove.
I filmati sono agghiaccianti: l’uomo avanza con passo fermo, deciso. Non corre, non grida; non si ferma di fronte a niente. I giovani (che vanno dai quattordici ai ventuno anni) gridano, urlano, scappano, si tuffano in mare; lo implorano. Non serve.
Passa circa un’ora. La polizia raggiunge l’isola. L’assassino non fugge, non oppone resistenza. Si arrende. Anders Behring Breivik, 32 anni, pare impassibile. In tribunale, nei mesi seguenti, non si pente, al contrario. Si dice anti-multiculturalista, anti-marxista, anti-islamico, anti-papista. Con tono lucido, rivendica l’attentato: “Lo rifarei”, dice, “finire la mia vita in prigione o morire per il mio popolo rappresentano il più grande onore che potessi ottenere”. Farnetica, parla di un complotto mondiale contro l’occidente cristiano, dice di fare parte dei templari, rivendica la sua appartenenza all’estremismo neo-nazista…
Il mondo è sotto shock; c'è chi offre solidarietà, chi chiede vendetta.
La giustizia norvegese non prevede la pena di morte e nemmeno l’ergastolo (il massimo della pena prevista è 21 anni).
Il popolo norvegese non si scompone: al di sotto delle ferite (e della rabbia e della paura), mantiene la propria dignità, la propria identità; rifiuta il clamore. In attesa della sentenza, il silenzio è rotto solo dal rumore della pioggia e dal canto di quarantamila persone: intonano “Barn av regnbuen” (“Bambini dell’arcobaleno”), una canzone molto popolare, che parla di uguaglianza e giustizia, e che Brevik detesta.  
Poi, è di nuovo silenzio.