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RICORRENZA DEL GIORNO

03/09/2013

La mafia uccide il gen. Carlo Alberto dalla Chiesa

Sono passati trent'anni dalla sera del 3 settembre 1982 quando in via Carini il Prefetto di Palermo, Carlo Alberto dalla Chiesa, la giovane moglie Emanuela Setti Carraro e l'agente di scorta Domenico Russo vennero uccisi dalla mafia. Ecco uno stralcio dell'ultima intervista rilasciata dal generale a Giorgio Bocca e pubblicata il 10 agosto 1982 su La Repubblica, non molti giorni prima quindi del brutale assassinio. Le parole e il tono dell'intervista mostrano chiaramente come dalla Chiesa fosse pienamente consapevole della pericolosità della sua missione e amareggiato dalla solitudine in cui era stato lasciato dalle Istituzioni romane. Queste pagine sono tratte da In nome del popolo italiano, di Nando dalla Chiesa:

Generale, mi sbaglio o lei ha una idea piuttosto estesa dei mandanti morali e dei complici indiretti? No, non si arrabbi, mi dica piuttosto perché fu ucciso il comunista Pio La Torre.
Per tutta la sua vita. Ma, decisiva, per la sua ultima proposta di legge di mettere accanto alla «associazione a delinquere» la «associazione mafìosa».

Non sono la stessa cosa? Come sì può perseguire una associazione mafiosa se non si hanno le prove che sia anche a delinquere?
È materia da definire. Magistrati, sociologi, poliziotti, giuristi sanno benissimo che cosa è l'associazione mafiosa. La definiscano per il codice e sottraggano i giudizi alle opinioni personali.

Come si vede lei generale dalla Chiesa di fronte al padrino de «II giorno della civetta»?
Stiamo studiandoci, muovendo le prime pedine. La mafia è cauta, lenta, ti misura, ti ascolta, ti verifica alla lontana. Un altro non se ne accorgerebbe, ma io questo mondo lo conosco.

Mi faccia un esempio.
Certi inviti. Un amico con cui hai avuto un rapporto di affari, di ufficio, ti dice, come per combinazione: perché non andiamo a prendere il caffè dai tali. Il nome è illustre. Se io non so che in quella casa l'eroina corre a fiumi ci vado e servo di copertura. Ma se ci vado sapendo è il segno che potrei avallare con la sola presenza quanto accade.

Che mondo complicato, forse era meglio l'antiterrorismo.
In un certo senso sì, allora avevo dietro di me l'opinione pub¬blica, l'attenzione dell'Italia che conta. I gambizzati erano tanti e quasi tutti negli uffici alti, giornalisti, magistrati, uomini politici. Con la mafia è diverso, salvo rare eccezioni la mafia uccide fra i malavitosi, l'ltalia per bene può disinteressarsene. E sbaglia.

Perché sbaglia, generale?
La mafia ormai sta nelle maggiori città italiane dove ha fatto grossi investimenti edilizi o commerciali e magari industriali. Vede, a me interessa conoscere questa «accumulazione primitiva» del capitale mafioso, questa fase di riciclaggio del denaro sporco, queste lire rubate, estorte che architetti o grafici di chiara fama hanno trasformato in case moderne o alberghi e ristoranti à la page. Ma mi interessa ancora di più la rete mafiosa di controllo, che grazie a quelle case, a quelle imprese, a quei commerci magari passati a mani insospettabili, corrette, sta nei punti chiave, assicura i rifugi, procura le vie di riciclag¬gio, controlla il potere.

E deposita nelle banche coperta dal segreto bancario, no, generale?
II segreto bancario. La questione vera non è lì. Se ne parla da due anni e ormai i mafiosi hanno preso le loro precauzioni. E poi che segreto di Pulcinella è? Le banche sanno benissimo da anni chi sono i loro clienti mafiosi. La lotta alla mafia non si fa nelle banche o a Bagheria o volta per volta, ma in modo globale.

Generale dalla Chiesa, da dove nascono le sue grandissime ambizioni? (Mi guarda incuriosito.)
Voglio dire, generale: questa lotta alla mafia l'hanno persa tutti, da secoli, i Borboni come i Savoia, la dittatura fascista come le democrazie pre e post fasciste, Garibaldi e Petrosino, il prefetto Mori e il bandito Giuliano, l'ala socialista dell’Evis indipendentista e la sinistra sindacale del Rizzotto e del Cannavale, la Commissione parlamentare di inchiesta e Danilo Dolci. Ma lei Carlo Alberto dalla Chiesa si mette il doppio petto blu prefettizio e ci vuole riprovare.

Ma sì, e con un certo ottimismo, sempre che venga al più presto definito il carattere della specifica investitura con la quale mi hanno fatto partire. Io, badi, non dico di vincere, di debellare, ma di contenere. Mi fido della mia professionalità, sono convinto che con un abile, paziente lavoro psicologico si può sottrarre alla mafia il suo potere. Ho capito una cosa molto semplice, ma forse decisiva: gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi caramente pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari diritti. Assicuriamoglieli, togliamo questo potere alla mafia, facciamo dei suoi dipendenti i nostri alleati.

Si va a pranzo in un ristorante della marina con la signora dalla Chiesa, oggetto misterioso per la Palermo del potere. Milanese, giovane, bella. Mah! In apparenza non ci sono guardie, precauzioni. II generale assicura che non c'erano neppure negli anni dell'antiterrorismo. Dice che è stata la fortuna a salvarlo le tre o quattro volte che cercarono di trasferirlo a un mondo migliore.
Doveva uccidermi Piancone la sera che andai al convegno dei Lyons. Ma ci andai in borghese e mi vide troppo tardi. Peci, quando lo arrestai, aveva in tasca l'elenco completo di quelli che avevano firmato il necrologio per la mia prima moglie. Di tutti sapevano indirizzo, abitudini, orari. Nel caso mi fossi rifugiato da uno di loro, per precauzione. Ma io precauzioni non ne prendo. Non ne ho prese neppure nei giorni in cui su «Rosso» appariva la mia faccia al centro del bersaglio da ti-rassegno, con il punteggio dieci, il massimo. Se non è istigazione ad uccidere questa?

Generale, sinceramente, ma a lei i garantisti piacciono?
(Dagli altri tavoli ci osservano in tralice. Quando usciamo qualcuno accenna un inchino e mormora: «Eccellenza».)