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RICORRENZA DEL GIORNO

15/12/2013

La banalità del male (1961)

La biografia racconta di un bambino normale, nato il 19 marzo 1905 a Solingen, in Renania, e rimasto orfano di madre a soli dieci anni; racconta poi che il padre, un anonimo impiegato dell’azienda elettrica tedesca, si era trasferito a Linz, in Austria, dove Adolf aveva frequentato le scuole senza mai diplomarsi.
Era un ragazzo maturo, ormai, quando aveva cominciato il lavoro di rappresentate, prima per l’azienda di estrazione mineraria fondata dal padre, poi per una compagnia petrolifera.
Era un uomo, ormai, quando nel 1932 aveva incontrato Ernst Kaltenbrunner: il giovane avvocato austriaco (futuro capo del RSHA, i servizi segreti delle SS) lo aveva convinto a iscriversi al partito nazionalsocialista e alle SS stesse, che proprio in quegli anni stavano prendendo forma.
Fino a quel momento Adolf Eichmann non si era mai interessato alla politica, né aveva coltivato ambizioni al riguardo. Una volta all’interno, però, era stato conquistato dalla ideologia nazista e aveva cominciato a impegnarsi. Si era reso conto, in particolare, che l’unico modo per fare carriera sarebbe stato diventare (o quantomeno presentarsi come) un esperto di ebraismo (per questa ragione aveva letto Lo stato ebraico di T. Herzl, il fondatore del movimento sionista, e nel ‘37 si era addirittura recato in Palestina). Il lavoro al quale era destinato non era per nulla eccitante: passava la giornata chiuso in ufficio, compilava registri e segnalazioni; era un burocrate, un passa-carte.
Poi, nel 1938, l’Austria era stata annessa alla Germania e il suo ruolo era cambiato, cresciuto: grazie alla sua competenza, era diventato il responsabile della cacciata degli ebrei dal territorio austriaco; d’altra parte, conosceva il meccanismo e sapeva come funzionava la burocrazia (quali concessioni, rinnovi e licenze concedere o negare): non c’era nessuno che avrebbe potuto gestire una “logistica” tanto complessa meglio di lui.

Il suo disegno era funzionato così bene che era stato promosso e inviato a Praga a gestire la “questione ebraica”: in Cecoslovacchia, però, non aveva potuto applicare lo stesso metodo ed era ricorso ai ghetti (alla segregazione, alla spogliazione, all’umiliazione), una sorta di anticamera dei campi di concentramento.
Nel 1942, Hitler e i suoi avevano dato il via libera alla “soluzione finale” ed Eichmann era stato incaricato di coordinare la macchina delle deportazioni (era colui che materialmente organizzava i convogli che trasportavano i deportati nei campi di sterminio).
Non era un “capo”, non faceva parte dell’elite: era un semplice manovratore, un oscuro burocrate.
E questa era stata la sua fortuna: al crollo del regime, era riuscito a scappare in Argentina, dove, assieme ad altri nazisti, aveva provato a rifarsi una vita.
Nel 1960, però, il servizio segreto israeliano, che lo aveva scovato, aveva organizzato il rapimento e il suo trasferimento in Israele, a Gerusalemme. Qui, Eichmann era stato ascoltato (“I papi del Reich”, si era difeso, “avevano impartito gli ordini e io dovevo obbedire. Ero uno strumento nelle mani di forze superiori”), giudicato (il processo era durato centoquattordici udienze) e il 15 dicembre 1961 condannato a morte (“qui”, avevano spiegato i giudici, “si giudicano le sue azioni, non le sofferenze degli ebrei, non il popolo tedesco o l’umanità, e neppure l’antisemitismo e il razzismo”): il 31 maggio  era stato impiccato.
Ad assistere al processo c’era una giovane filosofa, Hanna Arendt, allieva di Heidegger e Jasper, che aveva scritto: “Quel che ora penso veramente è che il male non è mai ‘radicale’, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo. Esso ‘sfida’, come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua 'banalità'. Solo il bene è profondo e può essere radicale”.