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RICORRENZA DEL GIORNO

17/05/2013

L'Omicidio Calabresi (1972)

Milano, ore 9.15: il commissario di polizia Luigi Calabresi, funzionario dell’ufficio politico della questura di Milano,  esce dalla sua abitazione.  Fa pochi passi, si dirige verso la sua macchina, una Fiat 500 blu. Alle sue spalle, un uomo (secondo alcune testimonianze, gli uomini sono due) spara: un colpo alla nuca, uno alla schiena. Poi si allontana, sale su una macchina e scompare nel traffico mattutino.
Il Commissario cade in una pozza di sangue. L'ambulanza arriva di gran carriera, lo soccorre, lo trasporta in ospedale. Non c’è niente da fare: muore. E lascia una moglie incinta e due bambini.
Calabresi, suo malgrado, è un simbolo. E, in questi anni, essere un simbolo significa essere un bersaglio.
La sinistra extra-parlamentare lo conosce, sa chi è, di cosa si occupa; lo accusa: “È il responsabile della morte di Pinelli”, il ferroviere anarchico caduto dal quarto piano della questura di Milano nel corso di un interrogatorio durato tre giorni e condotto proprio da Calabresi (che in quel momento non è presente nella stanza), in seguito alla strage di piazza Fontana (12 dicembre 1969).
Il giorno successivo, Lotta Comunista scrive: L'omicidio politico non è certo l'arma decisiva per l'emancipazione delle masse dal dominio capitalista così come l'azione armata clandestina non è certo la forma decisiva della lotta di classe nella fase che attraversiamo. Ma queste considerazioni non possono assolutamente indurci a deplorare l'uccisione di Calabresi, un atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria volontà di giustizia.
Le indagini si muovono in diverse direzioni. La svolta arriva nel 1980, quando Leonardo Marino, ex militante di LC, si pente e confessa: “Ho partecipato all’omicidio”. 
Il 22 gennaio 1997, dopo sette anni e altrettanti processi, la Quinta Sezione di Cassazione conferma la sentenza: 22 anni di carcere per Ovidio Bompressi, Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri.