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RICORRENZA DEL GIORNO

02/08/2013

L'abolizione delle catene per i detenuti (1902)

A cosa serve il carcere? A cosa servono le prigioni? A sorvegliare? A punire? Esiste un’alternativa, una forma più efficace di quella attuale (secondo i dati del Ministero della Giustizia, circa il 70% di coloro che scontano la pena per un certo reato, una volta in libertà, lo reiterano)?
In Sorvegliare e Punire, Michel Foucault sostiene che un tempo le pene erano visibili ("lo splendore dei supplizi") e servivano a celebrare il potere sovrano: il colpevole (messo alla gogna, in pubblica piazza) doveva pagare per l'affronto che aveva perpetrato nei confronti della legge (incarnazione pubblica e manifesta del corpo del re).
Poi, continua il filosofo francese, sono arrivati gli illuministi (tra i quali, ovviamente, cita il nostro Cesare Beccaria) e le loro presunte "istanze umanitarie": la pena, in apparenza “gentile”, sanziona una colpa nei confronti della società tutta (non più  un'offesa al sovrano), parla a chi non ha ancora compiuto il reato e si apre a una dimensione simbolica (si attua nel chiuso delle prigioni, che, però, non a caso sono edificate nel centro della città). Infine, conclude, è arrivato il "Panopticon" di Jeremy Bentham (una prigione in cui il condannato è sempre – potenzialmente – visto e controllato) e la "società disciplinare" (nella quale il potere, dice, si esercita in modo più pervasivo e meno manifesto, e si definisce nell'opposizione con l'altro, il diverso, l'escluso – il criminale e il malato mentale, ad esempio).

Al di là delle conclusioni più o meno discutibili, va dato atto a Foucault di avere portato al centro della discussione un argomento spesso marginale, che, però, alberga sempre nell'animo e nei pensieri della nostra Comunità e dei nostri Pastori: “Dovunque c’è un affamato, uno straniero, un ammalato, un carcerato”, ha detto Bendetto XVI in occasione della visita pastorale al carcere di Rebibbia il 18 dicembre 2011, “lì c’è Cristo stesso che attende la nostra visita e il nostro aiuto (...) Sono venuto a dirvi semplicemente che Dio vi ama di un amore infinito e siete sempre figli di Dio. E lo stesso unigenito Figlio di Dio, il Signore Gesù, ha fatto l’esperienza del carcere, è stato sottoposto a un giudizio davanti a un tribunale e ha subito la più feroce  condanna alla pena capitale (…) Certo, gli uomini non sono in grado di applicare la giustizia divina”, ha continuato, “ma devono almeno guardare ad  essa, cercare di cogliere lo spirito profondo che la anima, perché illumini anche la giustizia umana, per evitare – come purtroppo non di rado accade – che il detenuto divenga un escluso (....) Pieno compimento della legge", ha concluso, "è l’amore, scrive san Paolo (Rm 13,10): la nostra giustizia sarà tanto più perfetta quanto più sarà animata dall’amore per Dio e per i fratelli”.