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RICORRENZA DEL GIORNO

18/08/2013

Il "Golden boy" (1943)

Gianni Rivera è il primo giocatore italiano a vincere il Pallone d’oro (il premio individuale più prestigioso nel mondo del calcio). Nato ad Alessandria il 18 agosto 1943, esordisce in serie A nel 1959, non ancora sedicenne. Nonostante il fisico esile e mingherlino, l’anno seguente è acquistato dal Milan e nel 1961 esordisce in maglia rossonera (che indosserà per diciannove stagioni, per un totale di 658 partite giocate e 164 gol realizzati). Nel 1962, a soli diciotto anni, riceve la prima convocazione in maglia azzurra.
È l’inizio di una carriera folgorante.
Con il Milan vince tre scudetti, quattro coppe italia, due coppe dei campioni, due coppe delle coppe, una coppa intercontinentale.
Con la Nazionale vince un Europeo e partecipa all’incredibile spedizione azzurra dei mondiali messicani del 1970 (quelli di Italia - Germania 4 a 3, per dire, del Brasile di Pelè e della “staffetta” con Mazzola).
Scrive Gianni Brera nel giugno del 1985:
L'ho visto la prima volta in Alessandria-Milan, nel 1959 (...). Il ragazzino portava i capelli all'Umberta e, valutato ad occhio, aveva il carrello un po' basso, le cosce ipertrofiche, il petto miserello. Si muoveva tuttavia con un garbo che era indice di stile sicuro (non di classe, analfacalcio che siete!): toccava di destro con raffinata misura: fintava di corpo domando la palla e quindi apprestandosi al dribbling, che non sempre aveva bisogno di fare: lanciava palle pulite, mai viziate di effetti difficili. Portava la maglia numero 9 ma centravanti non era, bensì rifinitore: e questo scrissi, con ovvia sicumera, avendolo visto mandare tre volte in gol un certo Tacchi (umiliato il Milan fra la sorpresa generale). Riflettei che non era capace di scatto, bensì di progressivo, modico per giunta, e che non portava palla perché l'ispirazione lo soccorreva all' istante e poteva disfarsene prima che alcuno accorresse al tackle (…). Lo rividi in nazionale olimpica, scelto da Viani (che l' aveva già assunto al Milan per consiglio di Pedroni) e da Nereo Rocco, finalmente chiamato agli onori della ribalta nazionale. Rocco era stato fino a quel momento la vittima del più bieco conformismo italico, il catenacciaro, come scrivevano gli iloti della critica. La nazionale truccava il catenaccio e teneva Giovannino Rivera ala destra. Fece miracoli.

Giovannino Rivera approdò al Milan con il soprannome di Gipo Viani che l' aveva acquistato: "il babbambino d' oro". Non ricordo abbia subito sfondato. Innamorò di sè tutti gli ignari amatori di Apollo che languono e fremono in petto ai più impensabili tifosi.  (…) Fu lo scudetto e il Babbambino d' oro metteva piacevoli stucchi su quel solido muro. Agnelli disse che l' avrebbe preso solo per tenerlo a giocare in giardino e la Juventus decadde amaramente. (…) Nel 1966 ho visto Giovannino giocare la più disperante partita della sua carriera in Italia - Corea. Fu il solo a dare l' anima. La beffa del dentista (e di Perani e altri del Bologna) lo indusse a sacrifici dinamici inauditi e vani. Io rischiai l' infarto al telefono, lui si apprestò al miglior campionato della sua vita, quello seguente i mondiali. (…)
Quando lo esclusero dalla nazionale, Rocco lo portò al "Giovedì" del Riccione e tutti fummo conquistati da lui. Beveva benissimo, sapeva di vino (non che odorasse, ohibò): "Se torni in nazionale come noi sosterremo che debba, ricorda di dover servire subito Gigi Riva come hai fatto con Prati e Sormani". "D' accordo" disse: e lo fece puntualmente: e Riva conobbe alfine uno che sapeva scatenare i suoi rombi di tuono.  (…) A Città del Messico accadde un fattaccio osceno: Mandelli (un' intelligenza che il calcio respinse con terrore) minacciò di escluderlo dalla nazionale e Rivera lo insultò pubblicamente. (...) Mandelli si rivelò grande rifiutando di chiedere la testa di Rivera, che rimase a disposizione. I compagni, invidiosi, lo detestavano. Minerva soccorrevole porse a lui la lancia già inutilmente scagliata (vedi duello fra Achille ed Ettore sotto le porte Scee). Segnò il gol del pareggio tedesco (3-3): Albertosi lo seguì per strozzarlo: lui avanzava mesto quando Bonimba lo vide e trovò: fu un piatto destro divino e il 4-3. Per sua fortuna venne escluso dalla finale, comica, fino all' 84 minuto. (…) Le vicende della sua vita non furono sempre ideali. Unendo il proprio destino al Milan fu sempre coerente, non fortunato. Nessuno osa privarsene o mancargli di rispetto. E' equilibrato, forse anche saggio. La fama gli si dissolve sul capo come una nube non più molto grata. Non se ne affligge e per questo lo stimo. Forse l' angoscia lo prende sentendosi vecchio per un atleta che invero è stato più artista che atleta: però è composto, schivo, e mai lo dà a vedere. L'ho incontrato l' altra sera presso un amico comune, Ross Galimi. Abbiamo bevuto e conversato a lungo, molto serenamente. Fra i due, a capir meglio l' altro è stato lui. Orrida vecchiezza, ridammi il mio abatino.