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RICORRENZA DEL GIORNO

22/11/2012

Ascese e cadute di "Iron Mike"

Bello non era bello. Buono neppure. Fortunato meno che meno. Al contrario: Mike Tyson sembrava destinato a una vita fallimentare, di rese e rinunce. Da sbandato. Suo padre se ne era andato quando era ancora bambino e sua madre si era persa nell’alcol. Mike era un ragazzino solitario e silenzioso, e i più grandi lo prendevano in giro per il collo taurino, il tono lieve della voce, i vestiti sporchi e logori, e la passione per i piccioni, che allevava sul tetto di un edificio abbandonato.
La violenza non era l’unica soluzione, ma, forse, la più ovvia. Al principio, era quella di strada, del ghetto: furti, risse, aggressioni… la sua vita era un continuo entrare e uscire dai riformatori.
Ma proprio in riformatorio Mike trova l’occasione di redenzione: la “nobile arte”, il pugilato.
Mike infila i guantoni e comincia a picchiare. I suoi pugni sono carichi di rabbia, sono colpi contro il suo passato, contro ciò che il futuro sembra prospettargli. Cus D’Amato, figura mitica nel mondo della boxe, lo vede, lo nota. Gli brillano gli occhi. Decide di allenarlo.
Il 6 marzo 1985 Tyson fa il suo esordio tra i professionisti. E vince. È un anno pazzesco, che si racchiude nei numeri: 15 incontri, 15 vittorie per ko, di cui 11 alla prima ripresa. Da paura. Il passo successivo è inevitabile: il 22 novembre 1986 Iron Mike sconfigge al secondo round Trevor Berbick e, a venti anni e quattro mesi, diventa il più giovane campione dei pesi massimi nella storia del pugilato. E dà il via alla sua leggenda.
Poi, certo, è andata come è andata. Dopo tre anni da “invincibile”, Tyson si perde: finisce in prigione per stupro, litiga con Don King, il suo manager intrallazzone, guadagna, spende, spande (si compra addirittura una tigre), fallisce; ritorna sul ring, morde l’orecchio a un avversario, Evander Holyfield, perde.
Tuttavia la sua boxe, quel mix di forza, potenza e velocità, quel corpo rafforzato da allenamenti al limite dell’umano, quella rabbia e quella determinazione che lo animano, lo rendono una figura simbolo della boxe contemporanea e di quello che questo sport (cruento eppure nobile) racconta.