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Molto infastidiva Sciascia l'essere considerato un «mafiologo»: «Sono semplicemente uno che è nato, è vissuto e vive in un paese della Sicilia occidentale e ha sempre cercato di capire la realtà che lo circonda, gli avvenimenti, le persone» diceva. Così come lo infastidiva quell'«intuizione di letterato» che, nel migliore dei casi, gli veniva attribuita allorché scagliava taglienti ed eretiche verità contro il «folclore tenebroso» in cui venivano di solito assunti i fatti di mafia. Tirare il collo alla retorica e alla mistificazione, questo gli premeva. E regolarmente i suoi articoli scatenavano furenti polemiche - se non l'accusa, infamante, di fare «il gioco della mafia». Sicché non gli restava che citare l'amato Savinio: «avverto gli imbecilli che le loro proteste cadranno ai piedi della mia gelida indifferenza». Il fatto è - come dimostrano gli interventi qui radunati, fra cui quello sui 'professionisti dell'antimafia' - che Sciascia è lo scrittore italiano cui più che a ogni altro si attaglia l'aggettivo «scomodo»: che prenda posizione sulla morte di Calvi o sull'assassinio del generale Dalla Chiesa o sul caso Tortora o sul maxiprocesso di Palermo e sulle testimonianze di Buscetta e Contorno o, infine, sul rischio che l'antimafia si trasformi in strumento di potere, non potremo che riconoscere fino a che a punto sia rimasto fedele alla definizione che nel 1977 dava dell'intellettuale: «uno che esercita nella società civile ... la funzione di capire i fatti, di interpretarli, di coglierne le implicazioni anche remote e di scorgerne le conseguenze possibili. La funzione, insomma, che l'intelligenza, unita a una somma di conoscenze e mossa - principalmente e insopprimibilmente -dall'amore alla verità, gli consentono di svolgere».
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