Paolo nei saluti finali della Lettera ai colossesi parla di “Luca, il caro medico”, mentre nel breve scritto paolino a Filemone egli è definito semplicemente come “collaboratore” dell’apostolo, il quale confessa – nella seconda Lettera a Timoteo – di avere accanto a sé solo Luca come fedele amico. Medico, dunque, ma soprattutto “evangelista”, sia cooperando con Paolo nell’impegno missionario, sia componendo il suo Vangelo, il più lungo dei quattro, fatto com’è di ben 19.404 parole greche, il più raffinato e vario a livello stilistico e linguistico (egli usa un vocabolario di 2.055 parole diverse). La leggenda l’ha voluto anche pittore, soprattutto di icone mariane. Questa tradizione è fiorita in Oriente nel VI secolo, allorché un autore cristiano affermò che da Gerusalemme era stato inviato a Costantinopoli un ritratto della Madre di Gesù dipinto dall’evangelista e denominato in greco Hodighítria, ossia Maria “guida della via” verso Cristo. In realtà un paio di secoli prima sant’Agostino aveva affermato che “il volto di Maria ci è ignoto”. La tradizione, però, continuò con grande successo dando origine alle cosiddette “Madonne di Luca”, come quella venerata in Santa Maria Maggiore a Roma col titolo di Salus populi Romani, oppure la Madonna della Guardia di Bologna, o le altre “Madonne nere”, come quella di Czestochowa, in Polonia. In realtà, i più bei dipinti Luca ce li ha lasciati nel suo scritto evangelico, oltre che nella sua seconda opera, gli Atti degli Apostoli, un vivo e intenso ritratto della Chiesa delle origini, mossa dallo Spirito Santo, guidata da Pietro e Paolo, dedita all’annunzio della parola di Cristo e pronta alla testimonianza senza riserve, fino all’effusione del sangue, come fu per Stefano. Ma fermiamoci per un momento sul profilo di Luca così come ce l’ha consegnato la tradizione posteriore. Nel celebre Canone Muratoriano, dal nome del suo scopritore, lo storico Ludovico Antonio Muratori, documento conservato presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano e contenente l’elenco commentato dei libri biblici riconosciuti come tali dalla Chiesa di Roma attorno al 170-180, si parla così del terzo evangelista: “Luca, medico, dopo l’ascensione di Cristo, fu preso come compagno nel suo cammino da Paolo; egli compose a suo proprio nome, ma fondandosi su altre voci, il Vangelo. Egli però non vide il Signore nella carne e, così, dispose gli eventi secondo quanto poté seguirli, iniziando il suo resoconto con la nascita di Giovanni”. Una sorta di carta d’identità ricca di particolari ci è, invece, offerta da un antico proemio greco premesso al Vangelo (che di suo ha già uno splendido prologo dedicato a un non meglio noto “eccellentissimo Teofilo”), un testo apocrifo elaborato nel II secolo: “Luca, siro-antiocheno, di arte medico, divenuto discepolo degli apostoli, che seguì Paolo fino al suo martirio e il Signore senza distrazione, non sposato, senza figli, morì in Beozia (Grecia) all’età di 84 anni, pieno di Spirito Santo”. Anche se non si può giurare su tutti i dati qui segnalati, è comunque sicuro che Luca appartenga alla seconda generazione cristiana, provenga dal mondo pagano e si sia impegnato nell’opera missionaria con Paolo, aprendosi all’orizzonte greco-romano anche attraverso le sue due opere letterarie.
Importante è, allora, seguire proprio questi due scritti che sono la vera eredità spirituale dell’evangelista. Il Vangelo ha una sua impostazione molto originale, anche nella stessa trama narrativa riguardante la vita di Cristo. Ad esempio, sono suggestivi i due capitoli iniziali riservati alla nascita e all’infanzia del Battista e di Gesù, pagine ricche di teologia che hanno però affascinato anche la storia dell’arte e della tradizione popolare e che vedono la presenza di Maria, la Madre di Gesù, con un rilievo particolare, tanto da aver fatto ipotizzare una dipendenza di Luca da lei per quanto riguarda alcuni dati di queste pagine. Sorprendente è anche il cuore del Vangelo, costituito da una sequenza di capitoli occupati da una lunga marcia di Gesù verso la città del suo destino ultimo, Gerusalemme: là non si consumerà solo la tragedia della morte ma anche la glorificazione della Pasqua e dell’Ascensione. Indimenticabile è l’incontro del Risorto coi due discepoli di Emmaus, con l’approdo a una mensa dal profilo eucaristico (“prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro”) e con quell’accorata invocazione: “Rimani con noi perché si fa sera e il giorno sta ormai declinando!”. Ma l’originalità del Vangelo di Luca si rivela anche attraverso la sua teologia. Ecco innanzitutto il rilievo assegnato all’amore, al punto tale da aver meritato a Luca la definizione dantesca di scriba mansuetudinis Christi, ossia di scrittore della mansuetudine e della tenerezza di Gesù (così scrive Dante nella sua opera latina De Monarchia), come attestano, ad esempio, le stupende parabole della misericordia, o quella del Buon Samaritano. Cristo è visto, poi, da Luca come il centro nodale della storia che si sviluppa attorno alla sua persona e alla salvezza che egli dona all’intera umanità, come il “Signore”, Kyrios in greco, un termine che gli è applicato dall’evangelista 103 volte nel Vangelo e 107 negli Atti degli Apostoli. Tipica di Luca è, inoltre, l’esaltazione di alcuni temi come la gioia messianica che pervade chi crede in Cristo, oppure la povertà, che è una realtà sia sociale sia spirituale, perché riflette non solo il distacco dalla smania della ricchezza e del potere ma anche l’abbandono fiducioso nelle mani di Dio. Non per nulla, secondo Luca, Cristo muore pronunziando queste parole salmiche: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”, dopo aver offerto per l’ultima volta il dono del perdono a un malfattore. Un altro tema particolarmente caro al terzo evangelista è quello della preghiera: Gesù, nelle svolte decisive della sua vita, si ritira in orazione solitaria e nell’orto alle soglie della morte, appare come la grande figura dell’orante che ci ricorda di “pregare per non entrare in tentazione”. Luca, però, ha composto anche un altro scritto neotestamentario, gli Atti degli Apostoli, dedicandolo allo stesso Teofilo, il personaggio a cui aveva già destinato il Vangelo. Considerata quasi come un “quinto Vangelo”, quest’opera si muove su due livelli. Da un lato, segue la traiettoria storica che vede il Cristianesimo procedere da Gerusalemme e ramificarsi in tutta l’area mediterranea orientale, giungendo in Grecia e avendo come meta finale Roma. In questa trama si presentano come protagonisti prima Pietro che occupa lo spazio dei primi quindici capitoli culminanti nel “concilio” di Gerusalemme, e poi Paolo coi suoi vari viaggi missionari e col suo approdo a Roma, ove egli risiede alla fine, sotto il regime degli arresti domiciliari, in attesa dell’esito del suo ricorso alla suprema cassazione imperiale. D’altro lato, il racconto si svolge secondo un piano superiore, quello teologico che è inaugurato dalla scena iniziale della Pentecoste: è lo Spirito Santo che regge i missionari del Vangelo, pronti ad annunziare, non solo tra gli ebrei ma anche tra i pagani, la parola di Cristo e decisi a consacrare la loro vita per questo messaggio di vita e di amore. Il Cristianesimo rivela, così, non solo la sua forza propulsiva interiore ma anche il suo universalismo, offrendo così il profilo di una Chiesa che ha nel suo cuore – pur in mezzo a crisi interne e a prove esteriori – la potenza della parola di Cristo (citata 58 volte) che “cresce, si diffonde e si rafforza”. Secondo un’antica tradizione, Luca sarebbe morto martire a Patrasso in Grecia e il suo corpo sarebbe stato traslato a Costantinopoli, da dove – secondo un’altra tradizione – sarebbe stato portato a Padova nella basilica di Santa Giustina. L’attribuzione ai quattro evangelisti dei simboli presenti nel testo dell’Apocalisse ha visto l’assegnazione a Luca del toro o vitello perché il suo Vangelo, iniziando nel tempio di Gerusalemme col sacrificio celebrato da Zaccaria, il futuro padre del Battista, potrebbe essere rappresentato da un animale sacrificale.
(Gianfranco Ravasi)
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