Sant’Antonio abate
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"Visitare gli anziani è la regola degli antichi padri” rispose un giorno un monaco a un discepolo che gli chiedeva se era più utile cercare aiuto presso i monaci più saggi nella vita spirituale o restare a pregare in solitudine.
Ma per noi oggi ha ancora senso visitare Antonio, questo monaco vissuto nel deserto egiziano nella prima metà del IV secolo?
Forse nell’immaginario cristiano il nome di Antonio evoca una figura mitica, un eroe dell’ascesi, un austero eremita fuggito dal mondo e ritiratosi nel deserto. O forse ancora la figura di sant’Antonio è legata alla benedizione degli animali, dei maiali in particolare; si tratta in realtà di una tradizione nata in Germania nel Medioevo, quando era uso che ogni villaggio mantenesse un maiale destinato all’ospedale, dove svolgevano il loro servizio i monaci di sant’Antonio.
Storicamente Antonio non fu il primo monaco, anche se i monaci d’Oriente e occidentali riconosceranno in lui il loro padre. Del resto neppure l’Egitto fu la terra di nascita del monachesimo, sebbene il deserto egiziano sia stato il centro di irradiamento che influenzò più o meno direttamente le forme monastiche già esistenti o in via di formazione, a causa della santità dei suoi monaci, divenuti Padri di altri e, soprattutto, a causa della diffusione della Vita di Antonio scritta da Atanasio. Se le generazioni successive di monaci hanno trovato nella biografia di Antonio “una regola di vita monastica sotto forma di racconto” va ricordato tuttavia che né Antonio né gli altri Padri del deserto vollero introdurre nella chiesa una spiritualità diversa da quella dei semplici cristiani, una vita migliore, di perfezione rispetto a quella dei comuni battezzati.
Nella letteratura monastica del deserto egiziano i monaci, quando sono tentati di sentirsi migliori, vengono spesso inviati a imparare la via della santità presso un laico che è sposato e vive in città. Lo stesso Antonio fu inviato presso un ciabattino di Alessandria (o un medico, secondo alcuni manoscritti) che gli era stato additato a modello di vita cristiana. Quale fu l’itinerario di Antonio?
Cresciuto in una famiglia cristiana, dopo la morte dei genitori, tra i diciotto e i vent’anni lascia i beni e la sorella per seguire il Signore. All’origine della sua vocazione c’è la parola di Dio; Antonio desidera soltanto obbedire a questa parola, su di essa fonda la sua vita. Si mette alla scuola di un anziano monaco rimasto anonimo e da lui impara l’arte della lotta spirituale per poter vegliare sul proprio cuore e farne la dimora del Signore. Le sue giornate trascorrono nel lavoro e nella preghiera ininterrotta. Le prime tappe del suo itinerario sono avvolte da un’atmosfera di serenità e di pace, ma presto inizia un tempo di crisi e di tentazione.
Ogni tappa della vita di Antonio è caratterizzata da un momento di prova; la lotta contro il “divisore”, la forza del male che cerca di dividere il credente dal Signore, si fa sempre più interiore, fino a raggiungere le profondità del cuore.
Dopo le prime lotte con il demonio, si rinchiude in un sepolcro abbandonato, una vera e propria casetta in cui, secondo gli usi dell’Egitto pagano, si era soliti seppellire i morti. È durante questo tempo di ritiro che gli appaiono forme di animali feroci che lo assalgono e tentano di spaventarlo e farlo fuggire dal deserto. Gli animali feroci che gli appaiono rappresentano le tentazioni che colgono chi si mette alla sequela del Signore. Ma ormai Antonio ha raggiunto la maturità spirituale, è in grado di condurre altri, di diventare padre nello Spirito.
Atanasio racconta che “andò da quell’anziano di cui si è detto e lo pregava di andare ad abitare con lui nel deserto. Quello rifiutò sia a motivo dell’età, sia perché non vi era ancora tale consuetudine, e Antonio partì solo, verso la montagna”.
Trascorre altri vent’anni in solitudine, poi i suoi amici forzano la porta del fortino nel quale viveva e lo costringono ad uscire. La solitudine nella quale ha vissuto non è isolamento, né sterile ripiegamento sulla propria persona. Primo frutto della solitudine con Dio è l’amore, è la compassione per ogni uomo. Atanasio ricorda a più riprese l’amabilità di Antonio; già all’inizio della sua biografia annota: “Così viveva Antonio e per questo era amato da tutti (…) Tutta la gente del villaggio e quelli che amavano il bene e che lui frequentava, vedendolo così, lo chiamavano amico di Dio e lo amavano gli uni come figlio, gli altri come fratello”.
Dopo anni di preghiera, di lotta per acquistare un cuore puro, la sua intera persona è trasfigurata dalla grazia. Dopo aver conosciuto le tenebre che abitano il suo cuore, ha imparato a compatire ogni umana sofferenza, si curva sulla miseria e sulle malattie degli uomini, offre una parola di consolazione e di speranza a chi è afflitto, consiglia, conforta, consola, riconcilia chi è in lite, ovunque mette pace.
Presto molti vogliono imitare il suo genere di vita e
così “il deserto divenne una città”. Antonio comincia a trasmettere ciò
che ha imparato nel corso del suo cammino, ma non si preoccupa tanto di
indottrinare il discepolo, ma piuttosto di renderlo capace di ascoltare
la voce di Dio nel silenzio del deserto.
Non è di certo una vita
ascetica, riempita di pratiche religiose, ad assicurarci di vivere nella
grazia di Dio. L’ascesi evangelica, insegna Antonio, è opera di liberazione,
non di asservimento; i frutti dell’ascesi demoniaca sono la tristezza,
l’accidia, lo scoraggiamento, mentre i frutti dell’ascesi evangelica
sono la gioia e la pace. I demoni vogliono “trascinare i semplici
alla disperazione e affermare che l’ascesi è inutile” per indurre i
credenti allo scoraggiamento, prospettando la vita cristiana come
“pesante e gravosa”.
Quando, sotto l’imperatore Massimino, la Chiesa
subisce la persecuzione, molti cristiani di Alessandria vengono
arrestati. Antonio, solidale con la sua Chiesa, lascia il deserto per
confortare i cristiani in carcere e, se il Signore lo vuole,
testimoniare la sua fede con il martirio. La persecuzione cessa e
Antonio torna nel deserto dove, dice Atanasio, “viveva ogni giorno il
martirio del cuore e combatteva le battaglie della fede”. La fama dell’“uomo di Dio”
– così lo chiamava la gente – si diffonde; vengono nel deserto a
incontrarlo filosofi pagani, gli imperatori gli scrivono, molti vengono a
chiedergli consiglio, guarigione. Assediato dalle folle, Antonio fugge
in un luogo più isolato, per difendere la solitudine e la comunione con
Dio. Ormai è anziano e si prepara alla morte. Dopo una breve malattia,
accortosi che l’ora della partenza è vicina, chiama i due discepoli che
hanno vissuto con lui negli ultimi quindici anni, e lascia il suo
testamento: “Io, come sta scritto, me ne vado per la via dei padri. Vedo
che il Signore mi chiama (…) Respirate sempre Cristo e abbiate
fede in lui”. All’amico Atanasio lascia una delle sue melote, un
mantello di pelle di pecora; al vescovo Serapione l’altra. “Dopo queste
parole, i fratelli lo abbracciarono. Antonio (…) spirò e fu riunito ai
suoi padri”.
(di Enzo Bianchi)
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