Sant'Ignazio di Loyola
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Sono passati 450 anni dalla morte di sant’Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù, cioè dei gesuiti. Lo vogliamo ricordare, perché tra i fondatori di grandi ordini religiosi è probabilmente il meno conosciuto:
non certo quanto Benedetto, Francesco d’Assisi o Giovanni Bosco. Eppure
il suo influsso nella storia della Chiesa non è stato minore di quello
avuto da questi giganti della santità cristiana. Chi è stato, dunque, Ignazio di Loyola? Nacque nel 1491 ad Azpeitia, nella provincia basca di Guipuzcoa (Spagna), ultimo di tredici figli: la casa-torre in cui nacque si chiamava Loyola; di qui il nome di Ignazio di Loyola,
essendo costume dei baschi prendere il nome dalla casa (torre o
castello) in cui si era nati. Un anno dopo la sua nascita (1492), con la caduta di Granada i musulmani venivano definitivamente cacciati dalla Spagna, e Cristoforo Colombo scopriva l’America: fu l’occasione per i fratelli di Ignazio di andare a cercare fortuna nel Nuovo Mondo. Ignazio avrebbe voluto seguirli, ma non gli fu possibile. I genitori avrebbero voluto avviarlo alla carriera ecclesiastica, ma Ignazio non vi si sentiva portato; preferiva diventare un hidalgo
(cavaliere) e mettersi a servizio di qualche nobile per prepararsi a
entrare un giorno al servizio del re di Castiglia, Carlo V. Egli
aspirava a “fare cose grandi”, emulando le imprese di famosi cavalieri;
ma gli mancavano le occasioni. Gliene fu offerta una nel maggio 1521. I francesi volevano togliere la Navarra alla Spagna; perciò posero l’assedio alla capitale, Pamplona. Ignazio con una sua piccola truppa accorse in difesa della città
e si oppose caparbiamente alla resa, ritirandosi con i suoi uomini
nella cittadella. I francesi, per prenderla più facilmente, la
bombardarono. Un proiettile colpì Ignazio spezzandogli in più parti la gamba destra e ferendogli gravemente la sinistra.
Sembrava, per Ignazio, la fine dei suoi sogni di cavaliere al servizio
di Carlo V. Invece, fu l’inizio di un servizio di nuovo genere a un
nuovo re. Infatti, trasportato alla casa-torre di Loyola, si sottopose a orribili sofferenze per riavere l’uso delle gambe; poi, leggendo libri in cui si narravano le imprese di alcuni grandi santi, chiamati “cavalieri di Dio” (caballeros de Dios), decise di cambiare vita e di imitare le loro imprese, consistenti in grandi penitenze, e così diventare anch’egli un cavaliere di Dio.
Si recò perciò nel santuario di Montserrat, dove passò una notte in preghiera, a imitazione degli antichi cavalieri che con tale pratica ricevevano l’investitura cavalleresca. Poi
si ritirò in una piccola cittadina, chiamata Manresa, dove passò un
anno in preghiera e in penitenza, ricevendo da Dio grandi illuminazioni
spirituali, che egli, per non dimenticarsene, mise per iscritto: fu
l’inizio del libretto degli Esercizi spirituali, che rielaborò e
completò fino alla sua morte (1556) e che tanto influsso ha avuto sulla
spiritualità cattolica, dopo che Paolo III li ebbe approvati (1548),
esortando tutti i cristiani a farli. Ormai Ignazio era passato
al servizio del nuovo re, Gesù. Perciò desiderava andare a vivere
dov’era vissuto Gesù e continuare a esercitare la sua opera di
evangelizzazione. Così diede inizio a un nuovo genere di vita,
divenendo il Pellegrino, sempre in cammino alla ricerca di quello che
Dio voleva da lui: si sarebbe fermato a Roma soltanto nel 1541
dopo essersi recato da Barcellona a Venezia e da Venezia a Gerusalemme;
poi da Gerusalemme a Venezia e di là nella Spagna, ad Alcalà e a
Salamanca; da Salamanca a Parigi e nelle Fiandre; poi di nuovo nella
Spagna, di là a Venezia e, infine, da Venezia a Roma. La prima tappa del
suo pellegrinare fu Gerusalemme: voleva restarvi per “aiutare le anime”
(la sua espressione per indicare l’apostolato cristiano), ma il
francescano custode della Terrasanta non glielo permise. Tornato
in Spagna, si pose per lui l’interrogativo: che cosa avrebbe fatto
nella vita? Il suo desiderio più grande era quello di “aiutare le
anime”, ma come? Dopo lunghe riflessioni si rese conto che con
la sua rudimentale cultura non avrebbe potuto compiere un efficace
lavoro apostolico. Doveva quindi mettersi a studiare. Ma aveva 34 anni e non si sentiva portato agli studi. Quando, però, “sentì” che Dio voleva questo da lui,
con il forte impegno che metteva in tutte le cose, andò a scuola con i
bambini per imparare quel tanto di latino che gli permettesse di
studiare la filosofia e la teologia, che a quel tempo si studiavano in
latino. In due anni di intenso studio riuscì a impadronirsi del latino e
subito intraprese lo studio della filosofia (si diceva allora: delle
Arti) nell’università di Alcalà e poi in quella di Salamanca.
Ma i risultati furono modesti, perché perdeva molto tempo nel dirigere spiritualmente alcune pie persone, soprattutto donne, e, d’altra parte
l’inquisizione spagnola lo teneva d’occhio, tanto che fu messo in
prigione per 42 giorni con il sospetto che fosse un alumbrado
(“illuminato”), perché parlava di cose dello spirito senza aver studiato teologia. Ignazio decise allora di lasciare la Spagna e recarsi a Parigi
a studiare alla Sorbona: lontano dall’inquisizione spagnola, avrebbe
potuto continuare a dirigere spiritualmente le persone che si
rivolgevano a lui e, soprattutto,avrebbe potuto incontrare giovani
universitari, con la speranza di condurne alcuni a condividere la sua
scelta di vita povera e apostolica. Si rese subito conto che il latino imparato a Barcellona non era sufficiente
per seguire i corsi di filosofia: tornò perciò a scuola di latino con i
ragazzi. Dopo un anno era in grado di seguire i corsi di filosofia.
Così dal collegio di Montaigu passò al collegio di Santa Barbara:
l’università della Sorbona era composta da collegi in cui abitavano e
studiavano gli studenti delle varie “Nazioni”. Il collegio affittava le
stanze agli studenti: ai più poveri, detti portionistes, veniva
affittata soltanto una porzione della stanza, cosicché in una stessa
stanza venivano alloggiati tre o quattro studenti. Ignazio, che non
aveva nulla di suo, ma viveva col poco che riceveva dalla Spagna da
persone a lui devote, divideva la stanza con un giovane
originario della Navarra, Francesco Javier (Saverio), basco come lui, e
con un savoiardo, Pietro Favre Francesco, che era molto bravo e
intelligente, fu incaricato di ripetere la filosofia aristotelica a
Ignazio, ma non ne volle sapere: provava una forte antipatia per
Ignazio, ai suoi occhi troppo pio; perciò affidò a Pietro Favre
l’incarico di ripetergli le lezioni di filosofia. Ignazio non se l’ebbe a
male, anzi, condivise con Francesco, sempre a corto di soldi, il poco
denaro che aveva e gli procurò alunni per lezioni private. Si recava poi
in estate nelle Fiandre per elemosinare il denaro necessario per
pagarsi gli studi e aiutare ulteriormente i suoi compagni di stanza.
Mentre
studiava con impegno, fino a diventare “maestro in Arti”, cioè dottore
in filosofia, Ignazio dava ad alcuni giovani gli Esercizi spirituali, primo fra tutti a Pietro Favre. Si formò così attorno a lui un gruppo di “amici del Signore”, decisi a servire Dio e a consacrarsi, in povertà, all’apostolato.
Infatti, il 15 agosto 1534, Ignazio e i suoi sei compagni, nella
cappella della Madonna, sulla collina di Montmartre, fecero voto di
consacrarsi al bene spirituale del prossimo, vivendo in povertà a
imitazione di Cristo. Si sarebbero recati a Gerusalemme per fare
apostolato tra i turchi, ma, se dopo un anno di attesa a Venezia, da
dove partivano le navi per la Terrasanta, non fosse stato loro possibile
andarvi, si sarebbero recati a Roma per mettersi a disposizione del
papa, perché li inviasse dove lo richiedesse il maggior bene della
Chiesa. Ora nel 1537 nessuna nave partì da Venezia per la Terrasanta. I
sette “amici del Signore” si sarebbero recati a Roma e, a chi
avesse chiesto loro di quale Ordine religioso fossero, avrebbero
risposto di far parte della Compagnia di Gesù, di essere cioè un gruppo,
una compagnia, il cui capo era Gesù. Che essi fossero “al
servizio di Gesù” ne ebbe la conferma Ignazio nel suo viaggio da Venezia
a Roma; fermatosi a pregare in una cappella alla Storta, alle porte di
Roma, egli “sentì” una profonda “mutazione” nella sua anima e “vide”
chiaramente che “Iddio Padre lo metteva con Cristo suo Figlio”, volendo
che Gesù lo prendesse come suo “servitore”: che, cioè, Ignazio e i suoi
amici fossero “compagni” e “servi” di Gesù. Era la fondazione “spirituale” della Compagnia di Gesù, la
cui spiritualità avrebbe avuto due cardini: l’ “unione con Cristo
crocifisso” nella vita spirituale e il “servizio di Gesù” nella vita
apostolica. Se la fondazione spirituale della Compagnia di Gesù
avvenne nel 1537 alla Storta, la fondazione storica avvenne nel 1539 a
Roma, quando Ignazio e i suoi compagni erano ormai nove; dopo essersi
presentati al papa Paolo III per essere inviati da lui in varie parti
del mondo, decisero di fondare un nuovo Ordine religioso. Ignazio fu
incaricato di redigere una breve formula (27 settembre 1540). In cinque
brevi capitoli, essa delineava i caratteri essenziali del nuovo
istituto, che avrebbe portato il nome di Gesù e avrebbe avuto come scopo
la difesa e la propagazione della fede.
Inoltre,
insieme ai tre voti comuni a tutti i religiosi, i professi avrebbero
pronunciato un quarto voto di speciale obbedienza al papa, il quale
avrebbe potuto inviarli in missione in ogni parte del mondo: questo voto
era considerato il principale fondamento del nuovo istituto, che perciò
avrebbe avuto un carattere apostolico e missionario. Il superiore
generale del nuovo istituto sarebbe stato eletto a vita e i suoi membri
non sarebbero stati obbligati alla recita in coro dell’Ufficio divino né
a penitenze imposte per regola, come invece avveniva in tutti gli
Ordini. Nel 1541 Ignazio fu eletto all’unanimità superiore generale della Compagnia; non si sarebbe più mosso da Roma.
Il suo compito sarebbe stato quello di redigere le costituzioni del
nuovo istituto, che già cominciava a diffondersi in Europa, in Asia e in
America Latina, e di governarlo per mezzo di lettere. Fu questo
il periodo più fecondo della sua vita, nel quale egli si manifestò un
superiore saggio e amato da tutti, e insieme un grande mistico, favorito
quasi ogni giorno da illuminazioni spirituali e da visioni della
Trinità, di Gesù e di Maria, in particolare nella celebrazione
eucaristica giornaliera. La sua spiritualità infatti, era
trinitaria, cristocentrica ed eucaristica. La sua visione apostolica era
straordinariamente ampia: mentre inviava missionari nelle Indie e nel
Brasile, si preoccupava di difendere in Europa la fede cattolica messa
in grave pericolo dalla Riforma luterana e calvinista.
Istituì scuole gratuite e i collegi per l’educazione culturale e
cristiana dei giovani, promosse la riforma del clero e le missioni
popolari, volendo che i gesuiti insegnassero la verità cristiana anche
ai fanciulli e ai rozzi. I viaggi lunghissimi e le tremende
penitenze a cui si era sottoposto dopo la sua conversione avevano minato
la sua fibra fortissima, procurandogli gravi sofferenze, sopportate con
grande forza d’animo. Morì dopo una breve malattia il 31 luglio 1556,
chiudendo la sua continua ricerca di Dio e della sua maggior gloria con
le parole: “Ay, Dios” (Ah, Dio).
(Testo di Giuseppe De Rosa)
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