Sant'Ambrogio
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"Va’ e comportati non come un magistrato, ma come un vescovo”, avrebbe detto il proconsole Sesto Claudio Probo ad Aurelio Ambrogio, promettente avvocato che aveva voluto sedesse nel suo pretorio perché sosteneva le cause splendidamente. Da Roma, probabilmente nel 365, era venuto, assieme al fratello Satiro, a Sirmio, la capitale più remota dell’Impero situata nell’attuale Bosnia. Pochi anni di praticantato e subito nuovo prestigioso incarico. Probo, accompagnandolo con quella esortazione, lo inviava a Milano come consularis della regione Emilia Liguria, vastissimo
territorio che andava dalla Romagna alle Alpi. Era poco più che trentenne perché nato, chi dice nel 334, chi invece, con più probabilità, nel 340 a Treviri, altra capitale dell’Impero adagiata sulla Mosella nelle Gallie. Lì il padre aveva trasferito da Roma la famiglia perché nominato prefetto, quindi con l’incarico di rappresentare l’imperatore in una regione che abbracciava mezza Europa occidentale. La sua morte prematura costrinse la moglie a ritornare a Roma, città originaria degli Aureli, con i tre figli (Marcellina la maggiore, poi Satiro e ultimo Ambrogio). A Roma Ambrogio compì gli studi, specializzandosi in diritto: ma nella sua formazione non mancarono solide basi di quella cultura classica di cui andò sempre fiero, nutrita di ampie conoscenze di autori greci e latini che citerà frequentemente nelle opere che scriverà in seguito. Già l’impossibilità di definire con sicurezza l’anno di nascita di Ambrogio è un segno evidente che molte coordinate della prima metà della sua vita vanno riferite premettendo un obbligato “probabilmente”. Da Sirmio giunse a Milano poco più che trentenne, probabilmente nel 370. Il consularis era figura di primo piano nella burocrazia imperiale, con compiti che riguardavano la giustizia, l’ordine pubblico, la buona tenuta della viabilità, la riscossione dei tributi, il coordinamento dei governatori delle diverse regioni in cui era divisa la prefettura. Milano era capitale dell’Impero dalla fine del III secolo. Quando vi arrivò Ambrogio era più importante della stessa Roma, perché crocevia strategico delle strade che portavano in ogni direzione. Il tenore di vita dei suoi abitanti era alto; la città aveva terme, teatro, circo, zecca e poteva ostentare ville e palazzi bellissimi. Ambrogio contribuirà a contrassegnarla cristianamente costruendo basiliche, collocandole all’incrocio delle principali vie imperiali. A Milano stanziavano numerose truppe composte da soldati provenienti da ogni dove, ma la sua principale dignità le derivava dal fatto che da un po’ di tempo vi dimorava l’imperatore con la corte. Oggi noi definiremmo quella Milano città multietnica e multirazziale; ma anche multireligiosa, perché la preponderante popolazione pagana viveva a contatto di cristiani fra i quali i più numerosi erano i seguaci di Ario, negatore della divinità di Cristo, condannato dal concilio di Nicea del 325. Li guidava da circa vent’anni un vescovo proveniente dalla Cappadocia di nome Aussenzio, un barbaro che non conosceva neppure il latino e che, al dire dello stesso Ambrogio, aveva conquistato la sede armis exercituque, quindi con la forza. Ma godeva di protezione a corte, sostenuto da Giustina, seconda moglie dell’imperatore Valentiniano I, anch’essa ariana. Alla morte di Aussenzio i contrasti fra ariani e cattolici ubbidienti a Roma si fecero tanto aspri da avvelenare il clima cittadino e da far prevedere possibili scontri tra cristiani, mossi dalla volontà di imporre un successore della propria fazione. Ambrogio non poteva restare estraneo in una questione così dibattuta. Fu proprio nello svolgimento del suo delicato compito di tutore dell’ordine che si verificò un evento certamente non preventivato dal consularis.
Il suo primo biografo – Paolino, dal quale abbiamo desunto molte delle notizie fin qui riportate – ci racconta che, recatosi in chiesa e presa la parola con manifesti intenti di pacificazione, finito il suo intervento si levò improvvisa la voce di un bambino che preconizzava Ambrogio vescovo. Quella voce, vera o presunta, cambiò radicalmente la vita di Ambrogio,il quale – è sempre Paolino a scriverlo – mise in atto una serie di stratagemmi per sottrarsi a un volere che oltre a quello del popolo, della fazione cattolica ortodossa, di moltissimi vescovi sia orientali che occidentali, raccoglieva anche il favore di Valentiniano I, che “sapeva” (lo scrive lo storico Teodoreto di Ciro) “che la sua mente era più retta di ogni norma e le sue scelte più acute di ogni legge”. Tutti, insomma, pensavano che avesse le carte in regola per essere un vescovo di efficace mediazione. Non le aveva invece per esercitare da subito la nuova funzione: era appena catecumeno, non era sposato, ma nessuno poteva sapere quale sarebbe stata la sua definitiva scelta di vita; conosceva il diritto, ma non le Scritture; era del tutto privo di preparazione teologica e di pratica pastorale. “Quale resistenza opposi per non essere ordinato” scrisse in una lettera alla Chiesa di Vercelli sul finire della sua vita. Chiese che l’ordinazione fosse almeno rimandata. Non valsero le eccezioni sollevate: “Prevalse la violenza fattami”. Parole forti, che la dicono lunga sullo stato d’animo con il quale l’affermato magistrato passava, per volontà di altri, dal foro all’episcopio. Nel breve giro di pochi giorni percorse tutti i gradini sacramentali, dal battesimo alla pienezza del sacerdozio, che gli fu conferito il 7 dicembre del 374. Doveva avere poco più di 35 anni. “Strappato dai tribunali e dalla magistratura ed eletto all’episcopato, ho cominciato ad insegnare ciò che io stesso non avevo imparato”. Era diventato vescovo della sede episcopale più importante di tutto l’Impero: probabilmente alla sua preparazione dottrinale e pastorale provvide il prete Simpliciano, conosciuto a Roma, portato a Milano e rimasto sempre suo amico e confidente. Ambrogio era uomo del dovere, aveva carattere forte e determinato, era combattivo ma al tempo stesso incline alla tenerezza e alla pietà; affrontava le situazioni con singolare praticità. Di statura era piuttosto basso, di salute cagionevole. Probabilmente i primi anni li passò a “familiarizzare” con la nuova funzione, ma abbiamo conferma dalle sue opere che da subito cominciarono a diventare oggetto del suo magistero scritto e orale i valori evangelici che promuovono la vita e i doveri di presbiteri e laici. Fondamentali lo studio e la spiegazione delle Scritture, soprattutto le pagine dell’Antico Testamento, che interpretava facendo cogliere – al di là del senso letterario – quello morale e allegorico-mistico che tanto colpì Agostino nel suo soggiorno milanese (384-387), contribuendo a fargli cambiare opinione sul modo in cui i cristiani si avvicinavano ai testi ispirati e quindi a guidarlo verso la conversione. Ambrogio predicava molto, ma usava molto anche la penna: “In mezzo ai miei figli voglio assumermi il compito di insegnare” scrisse. L’opera omnia che ci ha lasciato spazia dall’esegesi alla teologia, alla morale, ma comprende anche discorsi funebri, inni sacri e tante lettere spedite a familiari, imperatori, pontefici e amici. Nutrire la Chiesa di dottrina, ma anche stabilizzarla nell’ortodossia nicena.
Ambrogio lottò molto contro l’eresia ariana, saldamente radicata a Milano e in tante parti dell’Impero, e per favorire in ogni modo il passaggio epocale dal paganesimo al Cristianesimo, dalla religione dei templi, delle vestali e degli dei, a quella di Cristo. Per il raggiungimento di fini tanto primari per lui, uomo di Chiesa, non disdegnava di scendere apertamente anche sul versante della polemica (rovente quella contro il prefetto di Roma Simmaco, difensore strenuo del paganesimo) e su quello della politica. Si fece amico di imperatori come Graziano, assassinato nel 383 mentre cercava di opporsi all’usurpatore Massimo in marcia contro di lui: ebbe l’iniziazione cristiana proprio dal trattato De fide che Ambrogio gli scrisse e rinunciò al titolo di pontifex maximus; Teodosio, che diventò l’alleato più sicuro per la sconfitta dell’arianesimo in Oriente e per il progressivo tramonto del paganesimo in ogni parte dell’Impero. Ma ebbe con alcuni anche scontri durissimi: con Valentiniano II, un dodicenne in balìa della politica ariana che la madre Giustina perseguiva proprio a Milano in chiave antiepiscopale; avvicinato però alle posizioni nicene qualche anno prima di essere rinvenuto morto nel 392. Ambrogio gli rivolse un significativo discorso funebre (De obitu Valentiniani). Scontri durissimi anche con lo stesso Teodosio, al quale oppose un forte diniego all’ingiunzione di ricostruire la sinagoga di Callinico incendiata nel 389 e il rifiuto di accoglierlo in chiesa se prima non avesse compiuto atto pubblico di penitenza per riparare alla sanguinosa strage di Tessalonica del 390. Più drammatico lo scontro che si verificò proprio a Milano negli anni 384-386, i più dolorosi dell’episcopato di Ambrogio, perché volle opporsi agli ariani che volevano ad ogni costo avere una basilica per celebrare la loro Pasqua. Il momento più cruciale si ebbe nella settimana santa del 386. “Davanti a me stava la morte” scrisse il vescovo. Ebbe invece dalla sua parte, compatto, il popolo che si asserragliò all’interno della chiesa cantando gli inni che Ambrogio – deciso a morire pur di non cedere – compose per incitare il popolo alla resistenza, che alla fine risultò vittoriosa. L’episcopato di Ambrogio si configura come un reticolo fittissimo di persone, fatti, scritti all’interno del quale – dal 374 al 397 – si evidenzia l’identità umana, cristiana, ecclesiale, politica e letteraria di un vescovo che fu determinante anche per la fisionomia liturgica del rito della sua Chiesa, che ancor oggi si dice “ambrosiano”. Visse in tempi funestati da proditorie uccisioni di sovrani legittimi, ribellioni di generali avidi di potere, da rappresaglie barbariche (per riscattare i prigionieri dalle nefandezze dei goti “noi spezzammo i vasi sacri” scrisse), da catastrofiche e penose carestie. Concesse molto alle ragioni della politica, sia pure per fini altamente ecclesiali; ma a Milano volle essere innanzitutto promotore di una Chiesa viva, culturalmente aperta a fermenti nuovi, muovendosi sempre con le qualità sicure e buone del maestro saggio e del pastore attento. L’uomo dell’attivismo instancabile era anche mistico, meditativo, poetico; l’uomo forte e fermo era anche affettuoso, misericordioso e dolce; l’uomo severo e franco amava mantenere rapporti assidui con gli amici e qualche volta scherzare con essi. Col passare degli anni la sua salute malferma si fece sempre più precaria. L’attività magisteriale e il ritmo degli spostamenti nella terra di sua giurisdizione e sul più vasto perimetro dell’Impero accrebbero i problemi di artrosi e di parola da cui era stato sempre afflitto. Camminava curvo, si appoggiava ad un bastone, a volte si faceva sorreggere negli spostamenti. Ma volle essere instancabile nei suoi doveri fino all’ultimo. Insediò il vescovo di Vercelli Onorato, fondò la Chiesa di Novara nel febbraio del 397 e subito dopo compì l’ultimo viaggio per consacrare il vescovo di Pavia. Non riuscì a portare a termine il commento del salmo 43 incominciato in quaresima. Verso Pasqua si mise a letto. Molti, anche fra i maggiorenti della città, si recarono al suo capezzale pregandolo di chiedere a Dio di tenerlo in vita. Paolino riferisce la replica di Ambrogio: “Non sono vissuto tra voi così da vergognarmi di vivere; ma non ho paura di morire perché abbiamo un Signore buono”. Ambrogio entrò in agonia il Venerdì santo; chiese e ricevette il viatico da Onorato e all’alba del Sabato santo spirò. Era il 4 aprile del 397; probabilmente non aveva ancora raggiunto i 60 anni di età.
(di Luigi Crivelli)
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