San Bruno della Certosa
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Così afferma un monaco che ha scelto di vivere in solitudine: “La chiamata al deserto è inscritta nel cuore della Chiesa, e non sotto forma di nostalgia per un passato glorioso, ma come unica condizione per un futuro in cui Dio continui ad agire con altrettanta potenza. Il deserto è una struttura teologica fondamentale della Chiesa, che non potrà certo essere privata di valore prima del ritorno di Gesù alla fine dei tempi. E questo da sempre. È il luogo dove la Chiesa nasce e cresce (…) A ogni tornante della storia di salvezza, vi furono ebrei che vennero ricondotti nel deserto per rivivervi la Pasqua e preparare un nuovo passaggio. Gesù, a sua volta, al momento d’inaugurare la sua missione, è guidato irresistibilmente dallo Spirito di Dio in solitudine, come tutti i suoi padri, che sapevano per esperienza come le strade di Dio si preparino nel deserto, e come sia in esso che vengono concepiti i frutti dello Spirito. La Chiesa stessa, ancora oggi, continua a restare addossata al deserto. In esso affonda le sue radici come in un terreno di Dio, nella terra materna dell’esodo e della Pasqua (…) Ora, questa porzione di deserto, che non dovrebbe essere estranea a nessuna vocazione cristiana, è assunta in modo particolarmente significativo dalla vita religiosa, e come imperativo ancor più pressante, conformemente a una tradizione che risale ai primissimi tempi della Chiesa, dai monaci, quegli uomini e quelle donne che chiamiamo contemplativi”.
Tra questi monaci e queste monache, che hanno scelto quale loro habitat il silenzio e la solitudine, vi sono i certosini. Questa forma di vita monastica, organizzatasi in Ordine nel corso del XII secolo, si richiama all’esperienza spirituale di Bruno, che nella vita solitaria con alcuni compagni non ha cercato nient’altro che di vivere la vita cristiana in totale radicalità. Giovanni di Salisbury, nel XIII secolo, dirà a proposito dei certosini: “Alcuni hanno come maestro Basilio, altri Benedetto, altri Agostino, ma questi (i certosini) hanno come specifico maestro il Signore Gesù Cristo”. Alla corruzione della Chiesa del suo tempo, alle deviazioni dottrinali, Bruno risponde opponendo una vita evangelica aliena da ogni spirito di potere e di compromesso.
Le fonti sulla vita del santo sono quanto mai esigue. Se si eccettuano due lettere e la professione di fede pronunciata al momento della morte, non ci ha lasciato altro di scritto. La tradizione ha attribuito a lui anche un commento ai Salmi, uno alle Lettere di Paolo e un brevissimo discorso sul disprezzo delle ricchezze, ma l’autenticità di tali scritti è dubbia. Qualche notizia ci è data da una cronaca della prima metà del XII secolo; ci sono giunte inoltre alcune Vite di epoca medievale, altre furono redatte nel XVI secolo. Bruno nacque a Colonia poco prima del 1030; studiò presso la prestigiosa scuola della cattedrale di Reims, dove, nel 1056, ricevette dal vescovo Gervasio l’incarico di rettore, incarico che adempì per circa vent’anni,con grande saggezza e sapienza. Furono anni di ampia e profonda formazione dottrinale; la sua cultura teologica fu alimentata dalla lettura degli antichi testi dei Padri d’Occidente e d’Oriente. Con il successore di Gervasio, il vescovo Manasse, vi furono forti conflitti: il nuovo vescovo, che a causa della sua sete di potere e del suo attaccamento alle ricchezze era di grande scandalo in diocesi, cercò di conquistarsi il favore di Bruno nominandolo cancelliere della chiesa di Reims. Questi ricoprì l’incarico per pochi mesi; alla fine del 1076, insieme agli altri canonici e al preposito del capitolo, lasciò la città in segno di protesta. L’anno successivo denunciò Manasse come indegno del ministero episcopale. Quando, nel 1080, quest’ultimo fu deposto, fu proposta la nomina a vescovo a Bruno, egli però non accettò. Un giorno, tra il 1080 e il 1083, lasciò l’insegnamento e si ritirò a Sèche-Fontaine, una località solitaria in una foresta appartenente all’abbazia di Molesme, fondata da Roberto, di cui divenne amico. Qui si unirono altri discepoli e presto la comunità si affiliò a Molesme.
Ma già nel 1084 Bruno era partito e nel mese di giugno dello stesso anno, insieme a sei compagni, si stabilì nella vallata incavata nel massiccio della Chartreuse dove, con l’aiuto della gente del paese, costruì le celle e una chiesa. Le celle, sicuramente dal secondo decennio del XII secolo, ma probabilmente fin dall’inizio, erano disposte intorno a un chiostro. La costruzione si trovava a 1175 metri d’altezza. Più in basso, in una zona pianeggiante dove era possibile praticare l’agricoltura e l’allevamento, fu costruita una casa per i fratelli conversi. Nei difficili inizi i fratelli furono aiutati dalla comunità di Cluny. Ma il cammino di Bruno non si conclude alla Chartreuse. Tra il 1089 e il 1090 papa Urbano II, che era stato suo discepolo e che, divenuto papa, cercava di attorniarsi di consiglieri fidati, lo chiama a Roma, creando non poco scompiglio nella giovane comunità. I monaci decidono di disperdersi, Bruno cede la proprietà del monastero, sembra che la vicenda comunitaria sia definitivamente conclusa, quando inaspettatamente i fratelli accolgono l’invito di Bruno a ritornare e a perseverare nella loro vita monastica sotto la guida di un monaco da lui scelto. All’inizio del 1090 Bruno partì per Roma e di qui per il Sud Italia, dove il papa si era rifugiato per sfuggire agli eserciti dell’imperatore Enrico IV e alle ostilità dell’antipapa. Urbano II gli propose la nomina a vescovo di Reggio Calabria. Bruno rifiutò e chiese, invece, di potersi ritirare di nuovo in solitudine. Non poteva far ritorno alla Chartreuse perché il papa desiderava averlo vicino. Ricevette una proprietà a 850 metri, nella diocesi di Squillace, nel punto più stretto della punta della penisola; in quel luogo solitario, ricoperto di boschi, costruì un monastero dedicato a santa Maria dove si viveva, sul modello della Chartreuse, una vita solitaria in comunità. “Io abito in un eremo, da ogni lato molto distante dalle abitazioni degli uomini, nelle lontane regioni della Calabria insieme a dei fratelli che conducono vita monastica (…) e che, perseverando con saldezza nei loro posti di sentinella nelle cose di Dio, attendono il ritorno del loro Signore per aprirgli subito quando busserà” scrive all’amico Rodolfo, che non aveva mantenuto il voto fatto di seguirlo nella vita monastica.
Bruno ha finalmente raggiunto l’amata solitudine: “Quanta utilità e gioia divina la solitudine e il silenzio dell’eremo apportino a coloro che li amano, lo sanno solo coloro che ne hanno fatto l’esperienza”. Nella solitudine, nell’assenza di distrazioni, i monaci sono aiutati a “ritornare in se stessi e abitare con se stessi”, a trovare la pace del cuore. Ogni desiderio è orientato al desiderio di Dio: “Che cosa è così giusto e utile e che cosa è così insito e consono alla natura umana come amare il bene? E che cos’altro è il bene se non Dio? Anzi, quale bene vi è se non Dio solo? Perciò l’anima santa, accesa dalla fiamma dell’amore, percepisce in parte l’incomparabile grazia, splendore e bellezza di tale bene: ‘L’anima mia ha sete del Dio forte e vivente. Quando verrò e comparirò davanti al volto di Dio?’”. Bruno trascorse nell’eremo di Santa Maria dieci anni. La domenica 6 ottobre 1101, sentendo che era giunta l’ora della morte, convocò i suoi fratelli “ricordò le sue diverse età a partire dalla sua stessa infanzia e narrò il corso di tutta la sua vita”; poi, secondo un uso frequente a quel tempo, professò la sua fede. A un monaco fu affidato il compito di diffondere l’annuncio della sua morte in Italia, Francia, Belgio e Inghilterra, dove era vivo il ricordo di lui. Dopo la sua morte, la comunità calabrese assumerà tratti cenobitici e chiederà di entrare nell’Ordine cistercense. La Chartreuse, invece, conservò quel particolare genere di vita che univa la solitudine alla comunità e lentamente, con il sorgere delle prime fondazioni, la stesura delle Consuetudini e l’istituzione dei capitoli annuali generali, assunse la fisionomia di un vero e proprio Ordine: l’Ordine certosino.
(di Enzo Bianchi)
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