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Salviamo Asia

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Ti chiami Asia Noreen Bibi.
Sei una donna, una persona, un essere umano.
Sei sposata con un “uomo buono”, Ashiq Masih.
Hai cinque figli, un maschio, Imran, e quattro femmine, Nasima, Isha, Sidra, la piccola Isham.
Hai un passato, un presente. Ti hanno negato il futuro.
Per millequattrocento giorni sei stata rinchiusa in una cella senza finestre. Dal giugno 2013 ti trovi in un carcere femminile. La sostanza non cambia: sei isolata dal mondo, isolata dai tuoi cari. Sola.
Perché?
Perché credi in Dio. Perché in un Paese a maggioranza musulmano sei cattolica. Perché ti hanno accusata, perché alcune donne del tuo villaggio hanno detto che hai insultato il profeta Maometto, perché un giudice ti ha condannato per blasfemia. E in Pakistan la blasfemia si paga con la morte.
La tua è una storia esemplare, tanto assurda quanto, in alcuni luoghi, normale: "In un primo momento", racconti alle poche persone che puoi incontrare, "vivevo frustrazione, rabbia, aggressività. Poi, grazie alla fede, dopo avere digiunato e pregato, le cose sono cambiate dentro di me e ho già perdonato di chi mi ha accusato".
La nostra frustrazione, la nostra preoccupazione, la nostra passione sono per te. E per tutte le persone che vivono la tua condizione, che, come te, sono condannate per colpa di un Credo, quale che sia. Ami Dio, gli rendi grazia. La fede è la tua gravità, il senso che riempie i tuoi giorni, che ti conforta. Che indica la direzione.
Un giudice, l’onorevole Naveed Iqbal, è entrato nella tua cella. Dopo averti condannato a una morte orribile, ti ha offerto una via di fuga: “Convertiti all’Islam”, ha proposto, “e avrai la vita salva”. Non hai vacillato, nemmeno un istante. Hai ringraziato, hai risposto: “Credo in Dio e nel suo grande amore. Se lei mi ha condannata a morte perché amo Dio, sarò orgogliosa di sacrificare la mia vita per Lui”.
Nel dicembre 2010 i delegati di una Ong, la Masihi Foundation, ti ha incontrato: le condizioni igieniche del carcere sono terribili, le tue, se possibili, peggiori. Tuttavia, pur essendo provata, sei una donna forte e coraggiosa. Ti sei fatta carico di un peso difficile da sopportare, di un dolore che non è solo tuo. Dalla tua cella hai scritto: “Due uomini giusti sono stati assassinati per aver chiesto giustizia e libertà per me. Il loro destino mi tormenta il cuore. Salman Taseer, governatore della mia regione, il Punjab, venne assassinato il 4 gennaio 2011 da un membro della sua scorta, semplicemente perché aveva chiesto al governo che fossi rilasciata e perché si era opposto alla legge sulla blasfemia in vigore in Pakistan. Due mesi dopo un ministro del governo nazionale, Shahbaz Bhatti, cristiano come me, fu ucciso per lo stesso motivo. Circondarono la sua auto e gli spararono con ferocia”.
È quello che ti aspetta: una morte barbara, violenta. Ingiusta.
Il mondo si è mobilitato. Durante l’Udienza Generale del 17 dicembre 2010, Benedetto XVI ha parlato di te in modo esplicito: “Esprimo la mia vicinanza spirituale alla signora Asia Bibi e ai suoi familiari, mentre chiedo che, al più presto, le sia restituita la piena libertà”. Ancora, il 6 marzo 2013 Avvenire ha consegnato più di trentamila firme all’ambasciatrice pachistana a Roma, Tehmina Janjua, per chiedere la tua liberazione. Tuttavia le pressioni nazionali e internazionali non portano ad alcun risultato. Come se il tuo destino fosse già scritto, come se non ci fosse nulla da fare. Pochi giorni fa, per dire, l’udienza inaugurale del processo d’appello, attesa da circa tre anni, è saltata per l’assenza di un giudice e rinviata a data da destinarsi. L’ennesimo rinvio. L’ennesimo muro. L’ennesimo inciampo di un processo che trascende la dinamica strettamente giudiziaria e assume una valenza politica. Oltre a investire l’incolumità fisica e mentale di una donna innocente.
Per questo non ti dimentichiamo. Per questo ti siamo vicini. Per questo, Asia, la nostra voce è la tua.