Quello che resta della Palestina
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Per comprendere ciò che sta accadendo sulle sponde del Mediterraneo, il Mare Nostrum, è necessario conoscere la storia di quella regione.
In caso contrario rischiamo di assecondare posizioni superficiali e ideologiche; di schierarci senza sapere il perché.
Certo, ripercorrere la storia della Palestina è un’impresa complessa. Perché è una storia che si perde nei tempi e non segue un percorso lineare. Anzi, se non suonasse irrispettoso, potremmo dire che è “un gran casino”.
Tuttavia vale la pena tentarci.
Prima di tutto, la Palestina: cos’è?
Di sicuro, non è – né è mai stato – il nome di una Nazione o uno Stato. Il termine, semmai, indica una regione del Vicino Oriente, un’area geografica dai confini incerti, compresi tra Mediterraneo, Libano, deserto siriaco, Mar Morto ed Egitto. Una terra santa per ebrei, cristiani e musulmani, popolata da epoche remote.
Al principio è Canaan, ed è costituita da una infinità di città-stato indipendenti oppure assoggettate a re ittiti o egizi. In seguito all’esodo dall’Egitto, diventa la terra degli Israeliti, che fondano la prima confederazione tribale, i regni di Saul, David e Salomone, infine quelli di Israele e Giuda.
Nei secoli successivi, si alternano assiri, babilonesi, persiani, greci, romani e bizantini.
Teatro delle crociate, nel 1517 d.C. la Palestina diventa parte dell’Impero Ottomano, sotto il cui dominio rimane fino alla fine della Grande Guerra, quando, in seguito alla caduta dell’Impero, diventa mandato britannico.
E cambia ogni cosa.
A partire dall’Ottocento, la comunità ebraica, che, tra alti e bassi, ha resistito a questo processo millenario, guadagna spazio e consistenza. Si chiama “aliyot”, salita, l’ondata di ebrei che lasciano le loro case, soprattutto in Europa, e migrano a Eretz, Israel, la “terra promessa”.
In questo contesto gioca un ruolo fondamentale l’ungherese Theodor Herzl, fondatore del sionismo, l’ideologia che propugna la creazione di uno Stato nazionale ebraico, che permetta agli israeliti di sfuggire alle persecuzioni e ai pregiudizi di cui sono vittime e di diventare un popolo e una comunità uguale alle altre.
Cosa significa? Cosa comporta, in concreto?
Che gli ebrei sparsi per il mondo comprano terre e si organizzano in kibbuz (comunità agricole comunitarie) e colonie, mentre i palestinesi, un gruppo etnico eterogeneo, che abita quelle terre da sempre, cominciano a preoccuparsi. Gli attriti, in origine, non hanno carattere religioso né hanno a che fare con l’immigrazione in sé. Ciò che non funziona sono, ad esempio, i criteri di assegnazione e distribuzione della terra, clamorosamente a loro svantaggio (che, secondo la tradizione, possiedono le piante, ma non il terreno sulle quali le coltivano e che, secondo il protettorato inglese, può essere acquistato o affidato ai nuovi arrivati senza troppi scrupoli).
L’ascesa di Hitler, le farneticazioni naziste, i campi di concentramento e la “soluzione finale” (che causa la morte di circa sei milioni di ebrei) segnano una tappa fondamentale nella storia della Palestina.
Nel novembre 1947 l’ONU presenta la risoluzione 181 che prevede la spartizione della regione in due Stati, uno arabo e uno ebraico, con Gerusalemme amministrata dalle Nazioni Unite.
Gli ebrei “esultano”: dopo duemila anni, e dopo avere superato tormenti di ogni tipo, tornano a casa. Gli arabi e i palestinesi si sentono traditi dalla comunità internazionale.
Il 14 maggio 1948 il primo ministro David Ben Gurion proclama ufficialmente la nascita dello Stato d'Israele.
Il giorno dopo Siria, Giordania, Egitto e Iraq, non riconoscendolo, lo attaccano, ma subiscono una grave sconfitta. Addirittura Israele sfrutta l’occasione per estendere i suoi confini a quasi tutta la Palestina, eccetto la striscia di Gazza, uno sputo di terra sulle rive del Mediterraneo, e la Cisgiordania. Per i palestinesi è la nahba, la catastrofe: più di settecentomila uomini, donne, anziani e bambini (circa metà della popolazione) è costretta a rifugiarsi nei paesi vicini, ammassandosi in enormi e invivibili campi profughi.
Intanto, la “legge del ritorno”, che garantisce la cittadinanza israeliana a ogni persona di discendenza ebraica nel mondo, e quella sulla “proprietà degli assenti”, che consente l’esproprio dei beni dei profughi, rappresentano le fondamenta di uno Stato a netta maggioranza ebraica, nel quale i palestinesi e gli arabi in generale diventano cittadini di serie B.
Israele combatte la sua prima guerra il giorno dopo la sua fondazione. Come a dire: non è proprio un buon inizio. Anzi, è un drammatico indizio.
Nel 1967 scoppia la Guerra dei Sei Giorni: il presidente egiziano Nasser, sostenitore dell’ideale panarabo, si allea con Siria e Giordania, e ammassa le truppe lungo i confini. Israele non ci sta, e con un contropiede fulminante sbaraglia gli eserciti nemici e allarga ulteriormente i suoi possedimenti, conquistando la penisola del Sinai e la striscia di Gaza, fino a quel momento protettorati egiziani, le alture del Golan, che strappa alla Siria, e la Cisgiordania, compresa Gerusalemme.
L’ONU cerca una mediazione, chiede che Israele restituisca i territori occupati e che, in cambio, gli Stati arabi riconoscano Israele. Non succede né l’una né l’altra cosa. Al contrario: gli israeliani rafforzano la loro presenza nei territori occupati con la fondazione di numerosi insediamenti, piccole realtà che in gran parte la comunità internazionale non riconosce. I palestinesi barcollano, sono sul punto di piegarsi. Ma tentano di reagire. Nel 1964 nasce l’OLP, un’organizzazione sostenuta dalla Lega Araba, che si batte per i diritti del popolo palestinese, di cui è l’unica rappresentante internazionale.
Qualche anno dopo, nel 1973, si svolge la cosiddetta “Guerra del Kippur”: Egitto e Siria attaccano Israele durante la festività dello Yom Kippur, il “giorno dell’espiazione”. Come in passato, Israele risponde in modo efficace e ricaccia i nemici al di là delle frontiere. Questa volta l’intervento delle Nazioni Unite risulta provvidenziale: evita che il conflitto si radicalizzi e si estenda a tutta l’area mediorientale.
Gli accordi fra Egitto e Israele (seguiti nel 1979 dal riconoscimento dello Stato d'Israele da parte del Cairo) segnano una nuova fase: in qualche modo gli Stati arabi si defilano dalla questione palestinese, che diventa un “gioco” a due.
I palestinesi, però, stanchi, frustrati e umiliati, reagiscono: sono gli anni della prima “Intifada”, la rivolta che nasce nei campi profughi e infiamma tutta una generazione. Sassi e fionde contro tank e soldati ben armati. Un martirio. Un urlo di rabbia. Una richiesta di aiuto.
Le vie diplomatiche, tuttavia, restano aperte e nel 1993 Rabin, primo ministro israeliano, e Arafat, presidente dell'OLP, sottoscrivono gli accordi di Oslo: nasce l’Autorità nazionale palestinese, con il compito di amministrare alcune città del futuro Stato palestinese. Che, tuttavia, non vedrà mai la luce, non per davvero almeno: diviso tra Cisgiordania e Gaza, lo Stato palestinese è costellato da insediamenti ebraici e privo di un esercito regolare. Con Gaza sotto blocco navale, terrestre e aereo. Alla fame, allo stremo. Il terreno ideale perché germini la radicalizzazione, che nel settembre 2000, sfocia nella “seconda Intifada”. Che ha un carattere diverso rispetto a quella degli anni Ottanta. Innanzitutto, essendo cappeggiata da Hamas, un gruppo di fondamentalisti islamici, introduce per la prima volta l’elemento religioso. Si combatte per Allah, non per il popolo. E lo si fa in modo violento, sanguinario, con gli attentati kamikaze, senza preoccuparsi di ferire innocenti. Perché, per Hamas, sono tutti colpevoli. Compresi i rappresentanti dell’Anp di Arafat, accusati di flirtare con il nemico.
Da questo momento i fatti si rincorrono a gran velocità:
nel 2002 Israele inizia a costruire una barriera lunga settecento chilometri lungo il confine con la Cisgiordania allo scopo di impedire l'ingresso di terroristi nel territorio nazionale.
Nel 2005 il primo ministro Sharon ordina lo smantellamento di diciassette insediamenti ebraici all'interno della Striscia di Gaza e il trasferimento di circa ottomila persone, consegnando il territorio all'ANP.
Pochi mesi dopo, al principio del 2006, Hamas vince le elzioni nella Striscia. E per Israele (come per l’Autorità palestinese) non è una buona notizia.
La tensione non diminuisce. Anzi, si aggrava.
Da una parte: lancio di missili, rapimenti, sequestri.
Dall’altra: uccisioni mirate (che mirate non sono), ritorsioni, discriminazioni.
In poche parole: morte, rabbia, disperazione. Incapacità di pensare a un futuro differente.
Così, fino ai giorni nostri.
L'8 giugno papa Francesco, il presidente israeliano Peres e quello palestinese Abu Mazen si sono incontrati in Vaticano insieme al patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo I, per cominciare "un cammino nuovo alla ricerca di ciò che unisce e per superare ciò che divide".
Ecco un estratto del discorso del Santo Padre:
Signori Presidenti, il mondo è un’eredità che abbiamo ricevuto dai nostri antenati, ma è anche un prestito dei nostri figli: figli che sono stanchi e sfiniti dai conflitti e desiderosi di raggiungere l’alba della pace; figli che ci chiedono di abbattere i muri dell’inimicizia e di percorrere la strada del dialogo e della pace perché l’amore e l’amicizia trionfino. Molti, troppi di questi figli sono caduti vittime innocenti della guerra e della violenza, piante strappate nel pieno rigoglio. E’ nostro dovere far sì che il loro sacrificio non sia vano. La loro memoria infonda in noi il coraggio della pace, la forza di perseverare nel dialogo ad ogni costo, la pazienza di tessere giorno per giorno la trama sempre più robusta di una convivenza rispettosa e pacifica, per la gloria di Dio e il bene di tutti. Per fare la pace ci vuole coraggio, molto di più che per fare la guerra [...]. La storia ci insegna che le nostre forze non bastano. Più di una volta siamo stati vicini alla pace, ma il maligno, con diversi mezzi, è riuscito a impedirla. Per questo siamo qui, perché sappiamo e crediamo che abbiamo bisogno dell’aiuto di Dio. Non rinunciamo alle nostre responsabilità, ma invochiamo Dio come atto di suprema responsabilità, di fronte alle nostre coscienze e di fronte ai nostri popoli. Abbiamo sentito una chiamata, e dobbiamo rispondere: la chiamata a spezzare la spirale dell’odio e della violenza, a spezzarla con una sola parola: "fratello". Ma per dire questa parola dobbiamo alzare tutti lo sguardo al Cielo, e riconoscerci figli di un solo Padre [...]. Signore, aiutaci Tu! Donaci Tu la pace, insegnaci Tu la pace, guidaci Tu verso la pace. Apri i nostri occhi e i nostri cuori e donaci il coraggio di dire: "mai più la guerra!"; "con la guerra tutto è distrutto!". Infondi in noi il coraggio di compiere gesti concreti per costruire la pace. Signore, Dio di Abramo e dei Profeti, Dio Amore che ci hai creati e ci chiami a vivere da fratelli, donaci la forza per essere ogni giorno artigiani della pace; donaci la capacità di guardare con benevolenza tutti i fratelli che incontriamo sul nostro cammino [...]. E che dal cuore di ogni uomo siano bandite queste parole: divisione, odio, guerra! Signore, disarma la lingua e le mani, rinnova i cuori e le menti, perché la parola che ci fa incontrare sia sempre "fratello", e lo stile della nostra vita diventi: shalom, pace, salam!
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