Il genocidio armeno
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In questi giorni la Turchia di Recep Tayyip Erdogan è sempre più isolata. E i toni del presidente sempre più forti e polemici nei confronti di papa Francesco, accusato, in ultimo, di impicciarsi di questioni che non lo riguardano: “Quando i politici e i funzionari religiosi assumono il compito degli storici”, ha dichiarato durante un incontro con l’associazione degli esportatori turchi, “ne deriva il delirio, non la verità dei fatti”.
Ora, prima di prendere una posizione o esprimere un’opinione, vale la pena capire – seppure in modo sintetico e, forse, un po’ superficiale – l’origine dello scandalo, ovvero: il centenario dello stermino armeno.
Siamo all’inizio del Novecento, in Anatolia.
I “Giovani Turchi” sono un movimento (poi partito) nazionalista, che spinge per un profondo mutamento dell’apparato politico e istituzionale dell’Impero Ottomano, e per l’affermazione di uno Stato fortemente identitario, omogeneo dal punto di vista della lingua, delle tradizioni e della religione, oltre che dell’etnia. Un progetto radicale, che, implicitamente, pone una questione di fondo: che fare dei “non-turchi”? In particolare: che fare delle comunità cristiane (armeni, greci e assiri) che abitano quelle terre dai tempi dei tempi?
Gli armeni, appunto:
evangelizzati da Taddeo e Bartolomeo, sono la prima popolazione a dichiarare il Cristianesimo religione di Stato ( 301 d.C.), e farne un tratto essenziale della propria identità.
Un’identità che, agli occhi dei Giovani Turchi, che stanno piano piano prendendo le leve del potere, è inconciliabile con la loro, perciò perseguibile. Così, nella notte tra il 23 e il 24 aprile 1915 arrestano diversi esponenti dell’elite culturale armena di Costantinopoli (oggi Istanbul).
È solo l’inizio.
Nei mesi (e negli anni) seguenti incarcerano più di mille intellettuali (giornalisti, scrittori, persino parlamentari), massacrano a sangue freddo centinai di giovani (specie soldati), torturano sacerdoti ed esponenti della cristianità e danno il via a una deportazione di massa: la popolazione armena dell’Anatolia e della Cilicia (compresi donne, invalidi e bambini) è privata dei suoi beni e delle sue terre, ed è costretta a marciare nel deserto per giorni e giorni; la maggior parte muore (per fame, sete, stenti, malattia o percosse – alcuni sono gettati in caverne e bruciati vivi, altri annegati nell’Eufrate o nel mar Nero). Chi si salva dalle cosiddette “marce della morte” è confinato in campi di prigionia, sorta di “lager in embrione”, cintati con filo spinato e privi di baracche o servizi igienici, dove non l’attende un destino molto migliore.
I turchi non riconoscono il Medz yeghern (“grande crimine” in armeno), e ricorrono a diverse motivazioni. Sostengono, per dire, che, in qualche modo, gli armeni se la fossero cercata, visto che tramavano con russi (cristiani ortodossi) e altri paesi europei contro l’affermazione dello Stato ottomano. O che le uccisioni non fossero deliberate, ma effetti collaterali dei “trasferimenti”. Soprattutto minimizzano il numero dei morti, che resta comunque controverso. Oltre che enorme (circa un milione e mezzo, ovvero due terzi degli armeni dell’Impero Ottomano).
A cent’anni dall’inizio delle persecuzione, ecco le parole che papa Francesco ha pronunciato nel corso della Santa Messa del 12 aprile 2015 e che tanto hanno irritato le autorità turche:
“La nostra umanità ha vissuto nel secolo scorso tre grandi tragedie inaudite: la prima, quella che generalmente viene considerata come 'il primo genocidio del XX secolo' (Giovanni Paolo II e Karekin II, Dichiarazione comune, Etchmiadzin, 27 settembre 2001); essa ha colpito il vostro popolo armeno, prima nazione cristiana, insieme ai siri cattolici e ortodossi, agli assiri, ai caldei e ai greci. Furono uccisi vescovi, sacerdoti, religiosi, donne, uomini, anziani e persino bambini e malati indifesi. Le altre due furono quelle perpetrate dal nazismo e dallo stalinismo. E più recentemente altri stermini di massa, come quelli in Cambogia, in Ruanda, in Burundi, in Bosnia. Eppure sembra che l’umanità non riesca a cessare di versare sangue innocente. Sembra che l’entusiasmo sorto alla fine della seconda guerra mondiale stia scomparendo e dissolvendosi. Pare che la famiglia umana rifiuti di imparare dai propri errori causati dalla legge del terrore; e così ancora oggi c’è chi cerca di eliminare i propri simili, con l’aiuto di alcuni e con il silenzio complice di altri che rimangono spettatori. Non abbiamo ancora imparato che 'la guerra è una follia, una inutile strage'.
Cari fedeli armeni, oggi ricordiamo con cuore trafitto dal dolore, ma colmo della speranza nel Signore Risorto, il centenario di quel tragico evento, di quell’immane e folle sterminio, che i vostri antenati hanno crudelmente patito. Ricordarli è necessario, anzi, doveroso, perché laddove non sussiste la memoria significa che il male tiene ancora aperta la ferita; nascondere o negare il male è come lasciare che una ferita continui a sanguinare senza medicarla!”.
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