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Il Cortile dei Gentili

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Parigi, 24 e 25 marzo 2011: nella città simbolo dell’Illuminismo si riunisce, per la prima volta e in modo ufficiale, il “Cortile dei Gentili”.
Di cosa si tratta? Di un dipartimento permanente varato dal Pontificio Consiglio della Cultura.
Quale finalità persegue? Il dialogo tra credenti e non credenti (agnostici e atei).
Perché questo nome? Il “Cortile dei Gentili” rimanda allo spazio del Tempio di Gerusalemme al quale potevano accedere anche i non ebrei, indipendentemente dalla razza, dalla cultura, dalla lingua e dalla religione di appartenenza. Dice San Paolo: Cristo è giunto per abbattere “il muro di separazione che divideva” ebrei e gentili, “per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, riconciliando tutti e due in un solo corpo” (Efesini 2, 14-16).

 

Ovvero? Credenti e non credenti si muovono e appartengono a orizzonti culturali differenti, ma, scrive il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e animatore dell’iniziativa, “non si devono rinserrare in un isolazionismo sacrale o laico, ignorandosi o peggio scagliandosi sberleffi o accuse, come vorrebbero i fondamentalisti di entrambi gli schieramenti.” Una cosa, sembra dire, è l’ateismo “nazional-popolare” (che sconfina “nelle nebbie della stupidità”), una cosa è l’ateismo dei grandi pensatori (si prenda Marx oppure il Nietzsche de La gaia scienza), che, senza essere stati illuminati dalla rivelazione evangelica, sono stati comunque capaci di creare sistemi di pensiero profondi e articolati, e di esprimere una grande nobiltà ideale. Allo stesso modo, la fede “deve ritrovare la sua grandezza, manifestata in secoli di pensiero alto e in una visione compiuta dell'essere e dell'esistere, evitando le scorciatoie del devozionalismo o del fondamentalismo”: la ragione teologica deve “volare alto”, deve indicare il “cielo”, senza erigere muri né arroccarsi nei propri recinti dogmatici.

 

Come è possibile l’incontro tra prospettive tanto differenti? Ascolto, attenzione, disponibilità: la “cura” nei confronti dell’altro (come “individuo”, come “ideale”) è la condizione fondamentale perché l’identità, ciascuna identità, sia alimentata, definita e rafforzata. Credenti e non credenti non devono darsi le spalle, non possono dire: “Io penso questo e sono nel giusto, tu pensi quello e sei nel falso"; anche se fanno riferimento a sistemi (di valori, di vita) differenti, devono sviluppare un atteggiamento di apertura. 
Ravasi ricorre alla metafora del “duetto”: due voci differenti, cioè, un basso e un soprano ad esempio, che  si integrano e accordano in una equilibrata armonia. La questione, semmai, è quale spartito suonare, ovvero, fuori dalla metafora, qual è, se esiste, il terreno condiviso: i “concetti base”, risponde Ravasi, le questione ultime dell’esistenza, quelle tematiche (la salvaguardia del Pianeta, l’etica, l’emarginazione, il nichilismo, la vita, la morte) che, al di là delle diverse conclusioni, appartengono all’uomo nella sua interezza, e ne definiscono l’identità e l’assoluta singolarità.

 

Dice Hegel nell’incipit della Vita di Gesù: "Tra gli ebrei fu Giovanni che richiamò l'attenzione degli uomini su questa loro dignità, che non dovrebbe essere per loro un qualcosa di estraneo, al contrario essi dovrebbero cercarla in se stessi, nel loro stesso animo e non nella loro filiazione, nell'inclinazione verso la felicità, nell'essere servitori di un uomo molto in vista, bensì nella cura della scintilla divina che è stata loro concessa e dà loro testimonianza del fatto che essi, in un senso sublime, discendono dalla divinità stessa".