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C.S. Lewis e le sue cronache di Narnia

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È raro che la vita di un autore sia interessante quanto la sua opera. Basti pensare a Immanuel Kant, uno dei filosofi più importanti di sempre, che ha esplorato i confini della conoscenza, dell’estetica e della morale senza muoversi da Königsberg, la cittadina in cui è nato, e che si racconta fosse così abitudinario e preciso che i concittadini regolassero gli orologi in base alle sue uscite quotidiane. 
La biografia di Clive Staples Lewis ha tutt’altro sapore. Basti pensare che da quando ha cinque anni si fa chiamare Jack, in onore del suo cane, travolto da una delle prime automobili in circolazione.
Ma andiamo per gradi.
Lewis nasce il 29 novembre 1898 a Belfast, in Irlanda, da una famiglia bene, padre avvocato di origine gallese e madre laureata in Lettere. È un ambiente colto e raffinato. Che si crepa nel 1908, quando la madre muore.
Il padre iscrive lui e Warren, il fratello maggiore, cui è molto legato, in collegio, alla Wynyard School di Watford. Ma dura poco, visto che il preside viene internato e la scuola chiusa. Jack passa da un istituto all’altro, fino a quando il padre lo affida a un tutore, W.T. Kirkpatrick, che risulta decisivo nella sua formazione.
Sono anni duri, intensi, stimolanti. Lewis legge tanto, tutto, specialmente miti e saghe nordiche. È in questo periodo che matura una decisione molto importante e, appena quindicenne, abbandona la fede (che definisce “logicamente indifendibile”) e diventa ateo, ateo convinto.

 

Nel 1916 vince una borsa di studio per Oxford. Fa appena in tempo a cominciare che parte volontario per il fronte francese. È la Grande Guerra e Lewis combatte in prima linea, tra corpi straziati e atti di eroismo. Durante la battaglia di Arras, in Francia, resta ferito. E trascorre la convalescenza in Inghilterra, fino al dicembre 1918, quando viene congedato e riprende gli studi. E, poi, la carriera accademica, diventando professore di Lingua e Letteratura Inglese presso il Madgalen College, dove insegna per i successivi trent’anni.
In questo periodo incontra un professore di filologia e linguistica destinato, come lui, a scuotere il mondo della narrativa, J.J. Tolkien. Si trovano al circolo letterario degli Inklings e parlano tanto, di tutto. Dei miti classici e scandinavi. E di religione. Al punto che l’itinerario spirituale di Lewis si complica ulteriormente con la conversione al cristianesimo e l’adesione alla chiesa anglicana, “una via di mezzo” tra il protentastesimo materno e il cattolicesimo dell’amico: “Durante il trimestre della Trinità del 1929”, racconta in Sorpreso dalla gioia, la sua autobiografia, “mi arresi, ammisi che Dio era Dio e mi inginocchiai per pregare: fui forse, quella sera, il convertito più disperato e riluttante d’Inghilterra”. 
Tra il 1930 e il 1950 Lewis pubblica i primi libri: saggi, scritti di carattere religioso e romanzi. Sono un successo, specie Le lettere di Berlicche, al punto che nel 1947 finisce sulla copertina del Time. Il vero successo, però, lo raggiunge nel ‘50, quando scopre la narrativa per l’infanzia.
“Sei ammattito?”, gli chiedono i suoi colleghi. “Rischi di rovinarti la reputazione!”
Lewis li ascolta. E va per la sua strada. E nel giro di sei anni pubblica una saga fantastica costituita da sette romanzi, Le cronache di Narnia.
Un libro fondamentale. Un pilastro del genere fantasy. Un classico del Novecento, capace di avvincere tanto i bambini quanto gli adulti.
Già perché dietro all’ambientazione fantastica, dietro agli animali parlanti, alle streghe, ai fauni, ai druidi e altri esseri immaginari, Lewis tesse una trama complessa, fatta di rimandi religiosi, mitologici e filosofici, che non smette di interrogare il lettore. Un viaggio inquieto e appassionato, che è lo specchio della sua vita. Che termina il 22 novembre 1963, quando non ha ancora sessantacinque anni e ha da poco perso  Joy, il suo unico, vero amore.