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San Francesco d'Assisi

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Francesco nacque ad Assisi nel 1181 o, secondo altri, nel 1182 da un ricco mercante di stoffe, Pietro di Bernardo o Bernardone, e da una donna d’origine forse francosettentrionale o provenzale, Pica. All’atto del battesimo gli venne imposto il nome di Giovanni: ma fu probabilmente fin dalla sua primissima infanzia che il padre, il quale si recava spesso in Francia per i suoi affari e vi aveva, a quanto pare, perfino preso moglie, preferì chiamarlo con il nome, allora inconsueto, di “Francesco”.
Poco sappiamo della sua infanzia. Il parroco della chiesa di San Giorgio gli insegnò forse i primi rudimenti di scrittura e di latino; fu probabilmente dalla madre che egli apprese qualcosa di francosettentrionale (lingua d’oil) e di provenzale (lingua d’oc). È probabile che il padre abbia cominciato presto a portarlo con sé in qualche viaggio d’affari, fino in Francia. Egli visse dunque giovanissimo, alla fine del XII secolo, le passioni del suo tempo: l’aspirazione alla crociata (Gerusalemme era caduta in mani musulmane nel 1187, e di un’impresa di riconquista si parlava di continuo), le tensioni politiche e sociali della sua Assisi, attraversata dalle lotte tra gli aristocratici, che controllavano il comune, e gli appartenenti ai ceti imprenditoriali e commerciali che aspiravano a condividere il governo cittadino, infine il fascino per i costumi cavallereschi. Alcune fonti ci riferiscono ch’egli amava primeggiare, tra i giovani brillanti della sua città, in feste e in conviti, che sapeva poetare e cantare anche in francese o in provenzale. Combatté con l’esercito assisano contro la vicina Perugia, fu fatto prigioniero e riscattato. Aspirando a conseguire la cintura di cavaliere, fu anche in procinto di seguire un aristocratico del luogo in un’impresa crociata.
Il giovane non doveva comunque, fin da quei suoi primi anni, essere insensibile al richiamo della fede: sappiamo di un pellegrinaggio a Roma, e di gesti di generosità nei confronti dei mendicanti che lo avevano accompagnato. Ma nel biennio 1204-1205 si situa il momento della sua repentina, decisiva crisi spirituale, inaugurata forse da una malattia che lo aveva costretto a interrompere, appena giunto a Spoleto, il suo viaggio in cerca di gloria cavalleresca. Francesco stesso avrebbe più tardi parlato, nel suo Testamento, della paura e della repulsione che gli ispirava la vista della povertà, della sofferenza e della morte, riassunte tutte nella dolente immagine dei lebbrosi: ecome il superamento di tale ribrezzo lo avrebbe condotto presto a “uscire dal mondo”.
La sua conversio viene collegata di solito  all’esperienza della malattia e della convalescenza e segnata da un misterioso episodio: la sua visita a una chiesetta in rovina appena fuori Assisi, San Damiano e una visione, durante la quale il crocifisso di quella chiesa gli aveva parlato. Dopo di allora, egli si dette intensamente a una vita di povertà e di carità, servendo i lebbrosi e restaurando i sacri edifici in rovina.
Il padre di Francesco, che sul figlio aveva investito gran parte delle sue speranze, e ne aveva forse sostenuto anche il costoso genere di vita, non apprezzò affatto la sua conversione e si rivolse all’autorità dell’ordinario episcopale assisano, il vescovo Guido, affinché i sogni mistici del giovane fossero autorevolmente ridotti alla realtà, e questi prendesse di nuovo coscienza dei suoi doveri filiali e dei compiti familiari e professionali che lo attendevano.
Sembra che, al contrario, il prelato fosse colpito dalla sincerità e dalla serietà dei propositi di Francesco e lo prendesse sotto la protezione della Chiesa: ciò appare simboleggiato dall’episodio durante il quale Francesco rinunzia all’eredità paterna spogliandosi pubblicamente nudo dinanzi al vescovo, al padre e ai concittadini, e il vescovo ne copre col suo mantello la nudità (un gesto che va interpretato non semplicisticamente come di difesa del pudore, bensì di rivendicazione giurisdizionale).

 

Da allora cominciò il cammino di Francesco sulla via della sequela Christi. Si dedicò alla cura dei poveri e dei lebbrosi, soggiornando prima nei boschi del Monte Subasio, poi più a valle, nei pressi della cappella di Santa Maria degli Angeli detta “la Porziuncola”: fu lì che, nel 1208, un giorno – probabilmente il 24 febbraio – durante la messa, sentì il bisogno di uscire  definitivamente dal “mondo” e, secondo il testo di Matteo sul momento consultato, di privarsi di tutto per fare del bene dovunque fosse possibile. Rientrato a Assisi, iniziò la sua predicazione raccogliendo attorno a sé una dozzina di seguaci, nella maggior parte suoi vecchi compagni di giochi e di feste: divennero i primi membri d’una libera fraternitas di laici votati alla povertà, alla vita comune e alla carità. Nel 1210 il sodalizio venne riconosciuto e legittimato a viva voce da papa Innocenzo III, probabilmente anche grazie alla mediazione di Giovanni Colonna, cardinale di San Paolo, cui Francesco era stato raccomandato dal vescovo di Assisi; nel 1212 si avviò anche un ramo femminile di esso, con Chiara di Offreduccio e alcune sue congiunte, che tuttavia si avviarono a un’esperienza di clausura, mentre Francesco, dopo aver intensamente predicato in varie regioni della penisola italica, affrontò anche l’esperienza del pellegrinaggio a Santiago di Compostela e verso la stessa Terrasanta; ma sembra che un naufragio lo inducesse a rinviare per il momento i suoi propositi che, secondo alcune fonti, includevano anche quello di recarsi a testimoniare il Vangelo presso gli infedeli.
Le fonti pongono – con alquante incertezze – nel biennio 1212-1214 il periodo del viaggio di Francesco in Spagna e del suo tentativo di raggiungere il Marocco per predicare ai musulmani. Più sicure la sua permanenza in Italia nel biennio 1215-16 e la sua presenza a Perugia all’atto della morte di papa Innocenzo III. Il successore, Onorio III, fu molto importante per il consolidamento della fraternitas e la sua trasformazione in vero e proprio Ordine mendicante, prima espressione del quale fu il celebre capitolo generale tenutosi in Assisi nella Pentecoste del 1217. Da allora, i membri dell’Ordine si sparsero in tutta Europa (famose le vicende del loro arrivo in Francia, Germania e Inghilterra) e in Terrasanta. Nel 1217-18 dovrebbe situarsi anche l’incontro, a Roma, tra Francesco e Domenico di Guzmán. Nel 1219 si presentò l’occasione di ripensare alla missione presso i musulmani mentre, ormai già da due anni, alcuni membri della fraternitas avevano impiantato le loro case anche in Oltremare, sulla costa siropalestinese, ancora presidiata dai franco-occidentali e inquadrata nelle istituzioni del Regno di Gerusalemme, la cui capitale era ormai Acri. La spedizione partita nel 1217 sotto la guida del legato pontificio cardinal Pelagio era approdata a un lungo assedio della città portuale di Damietta, sul delta del Nilo. Celebrato quindi il secondo capitolo generale dell’Ordine nel maggio del 1219, Francesco s’imbarcò ad Ancora il 21 giugno, con una dozzina di compagni, tra i quali Pietro Cattani e Illuminato da Rieti, e veleggiò prima alla volta di Acri, per incontrarsi con i confratelli là insediati, poi verso l’Egitto, giungendo all’accampamento crociato. Aveva evidentemente egli stesso assunto la croce (ma in quanto diacono non portava naturalmente le armi; né poté visitare Gerusalemme, poiché l’ordinanza pontificia proibiva ai cristiani di frequentare le partes infidelium in tempi di crociata) e desiderava senza dubbio tanto predicare a quanti avevano risposto in armi all’appello della Chiesa, quanto incontrare i musulmani e testimoniare loro la sua fede nel Cristo. È molto probabile che egli abbia davvero incontrato, in tale circostanza, il sultano al-Malik al-Kamil, noto per le sue longanimi doti, né è impossibile ch’egli ambisse in realtà al martirio, come avrebbe più tardi sostenuto Dante. L’incontro aprì comunque la grande stagione della vocazione missionaria francescana, sebbene l’Ordine desse più tardi prova d’intenderla in senso prevalentemente apologetico e controversistico, estraneo alle primitive intenzioni del Povero d’Assisi.

 

Rientrò in Italia nel 1220 (approdò secondo la tradizione a Venezia nel mese di luglio). La sua salute era intanto molto peggiorata, e durante il soggiorno sul delta egiziano aveva forse anche contratto una forma di tracoma che lo condusse a una cecità quasi totale. Subito dovette affrontare le difficoltà derivate dal successo stesso della sua fraternitas, nella quale stavano convergendo intanto seguaci di varia estrazione sociale e culturale, e che stava subendo quindi sollecitazioni d’ogni tipo, tese sia ad addolcirne, sia a renderne più severa la Regola, specie riguardo al concetto di povertà assoluta, che includeva il rifiuto non solo di qualunque tipo di proprietà bensì, in modo più profondo, quello dell’esercizio di qualunque forma di potere, compreso il sapere, avvertito esso stesso, appunto, come una forma di potenza e di ricchezza.
Approfittando della sua assenza, molti confratelli avevano cercato in vario modo di “correggere” la vocazione dell’Ordine; e alcune di queste tendenze erano state appoggiate dalla Santa Sede e dal cardinale Ugolino di Ostia che fungeva da tramite tra essa e il fondatore, e preoccupato per i caratteri innovatori del nuovo Ordine rispetto alla tradizione monastica.
Si procedette dunque alla necessaria definizione della Regola di quello che ormai era l’Ordine mendicante dei frati Minori. Importante per questo fu il cosiddetto “capitolo delle Stuoie” della Pentecoste del 1221. Alla presenza di oltre cinquemila frati, provenienti da tutte le parti della cristianità, Francesco ribadì con energia la specificità della sua proposta cristiana, diversa da quella di qualunque altro Ordine, e non in concorrenza con alcuno di essi, ma anche irriducibile a qualunque altro. Secondo la tradizione, rientrando da Venezia a Assisi l’anno precedente, aveva sostato a Bologna, e lì si era indignato perché i suoi frati avevano fatto del loro convento una vera e propria “casa” (non un punto provvisorio di riparo, bensì una stabile dimora) e si andavano impegnando nello Studium universitario.
Tuttavia queste tendenze alla clericalizzazione, all’inserimento nel mondo universitario e in generale all’omologazione dei francescani rispetto agli altri Ordini (e a quello stesso domenicano, che stava allora ricevendo la sua configurazione definitiva), erano largamente presenti nell’Ordine e sostenute sia dal cardinale Ugolino, sia dal collaboratore più energico e intelligente di Francesco, frate Elia da Cortona (o, secondo più recenti interpretazioni, da Assisi). La Regola, dalla laboriosa gestazione, conobbe un primo testo del 1221 (Regula non bullata, cioè non legittimata da un documento ufficiale pontificio) e un secondo del 1223 che, rispetto al primo, ne modificava alquanto il rigore. Si andarono intanto precisando il ruolo sia del Secondo Ordine francescano, quello delle Povere Dame (le clarisse), sia del Terzo Ordine, dedicato ai laici.

 

Il passaggio dalla prima alla seconda Regola non fu per nulla facile. I vertici della Chiesa stimavano la regola del 1221 – che difatti non ricevette legittimazione gerarchica formale – troppo dura e confusa, inadatta alla vita dell’Ordine, che si era andato sviluppando tanto al di là di qualunque previsione. Ugolino ed Elia fecero le loro proposte ed esercitarono la loro pressione sul fondatore: le circostanze in cui tutto ciò avvenne non sono per nulla chiare. Francesco si ritirò in meditazione nell’eremo di Fonte Colombo vicino Rieti e, alla fine, emise una nuova redazione del documento, non più distinto in ventitré, bensì in soli dodici capitoli. In questa seconda forma la Regola venne finalmente approvata da Onorio III con la bolla Solet annuere del 29 novembre 1223: ed è difatti conosciuta come Regula bullata.
I tre anni che vanno dal ritorno di Francesco dall’Egitto alla legittimazione della Regola dovettero essere, per il Povero d’Assisi, tra i più amari e difficili. Ormai quarantenne (età relativamente avanzata in quel tempo), provato dalle privazioni e dalle malattie, era costretto a confrontarsi con la realtà della volontà della Chiesa di piegare l’Ordine alle necessità del momento, prime fra tutte il rafforzamento della disciplina ecclesiale, la lotta antiereticale e la necessità di gestire il nuovo fenomeno socioculturale degli Studia universitari. Egli si rese conto che il primato della sequela Christi caratterizzato, nella sua interpretazione, dalla povertà assoluta e dalla rinunzia a qualunque tipo di potere (“seguire nudi il Cristo nudo”) era in pericolo: d’altro canto, il suo stesso fermo principio della “santa obbedienza” gli impediva di resistere a una tendenza legittimata dal pontefice. Non gli restava pertanto che il ritirarsi dalla guida attiva dell’Ordine. Del resto, il corpo non lo sosteneva più. Nel 1223 si era ritirato nel piccolo centro umbro di Greccio, dove aveva celebrato il Natale con una specie di sacra rappresentazione che ha dato origine alla tradizione del presepio nella quale, senza dubbio, egli riviveva con commozione il dolore per non aver potuto visitare, circa quattro anni prima, i Luoghi santi. Aveva passato nel 1224 un lungo periodo di degenza nella sua diletta San Damiano: e lì aveva composto la più alta opera di poesia di tutta la storia della lingua italiana, il Cantico delle Creature (altri ne fissano la composizione al settembre 1225). Nel settembre di quello stesso anno si ritirò sul monte della Verna, una roccia appenninica del Casentino, fra Toscana e Romagna, che gli era stata donata, una decina d’anni prima, da un feudatario del luogo, per una quaresima dedicata all’Arcangelo Michele: e lì, nel giorno dell’Esaltazione della santa Croce, il 14 settembre, aveva ricevuto le stigmate. Le forze, ormai, non lo sostenevano più. Tra 1225 e 1226 aveva passato qualche tempo a Siena, dove si era cercato di curargli l’affezione agli occhi. Nell’aprile 1226 si trasferì a Cortona, nel confortevole convento delle Celle, dove, secondo la tradizione, redasse il documento fondamentale e definitivo della sua esperienza, il Testamento, nel quale raccomandava con energia che la regola del 1223 fosse seguita costantemente e alla lettera: sine glossa, senza nessuna forma di commento che in qualche modo la mutasse. Raggiunse quindi la sua diletta Assisi e si fermò ai piedi della città, alla Porziuncola, da dove inviò un messaggio a un’amica, l’aristocratica romana Jacopa de’ Settesoli, pregandola di raggiungerlo recando con sé il necessario per la preparazione di certi dolcetti che egli prediligeva e che voleva gustare ancora una volta. Morì al tramonto del 3 ottobre 1226 salutato dal volo e dal canto delle allodole, gli uccelli del mattino. Canonizzato quasi immediatamente, nel 1228, le sue spoglie riposano in un grande santuario che Elia e Ugolino vollero elevare in onore di chi, in vita, non aveva tollerato nemmeno il possesso di una modesta dimora. Lo si onora come alter Christus, un secondo Cristo.

(Franco Cardini)