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26/12/2017

Santo Stefano

"Mentre si trovano a stento gli atti degli altri martiri, per poterli leggere in occasione delle loro feste, la passione di Stefano è contenuta in un libro, gli Atti degli Apostoli, che fa parte del canone delle Sacre Scritture" (PL 38, 1426). Con queste parole, sant’Agostino iniziava uno dei suoi sermoni dedicati alla figura di santo Stefano Protomartire. La considerazione del vescovo di Ippona risulta meno banale di quanto sembra, se posta nel contesto degli inizi del V secolo, un’epoca in cui si diffondevano grandemente il culto dei martiri e la devozione per le loro reliquie e, di pari passo, si moltiplicavano le narrazioni leggendarie delle loro vite e delle loro gesta miracolose in punto di morte. Insomma, Agostino aveva colto un aspetto che rende unica la vicenda di Stefano: il fatto di possedere una fonte assolutamente credibile, per la sua autorevolezza e per la prossimità agli eventi che ha trasmesso. Infatti la storia di santo Stefano è nota solo grazie alla narrazione degli Atti degli Apostoli ai capitoli 6-7, che permette di ricostruire alcuni tratti della personalità del primo martire. Tuttavia la vita di Stefano rimane per lo più sconosciuta. È infatti impossibile ricostruire alcuni fondamentali dati biografici, come il luogo e l’anno di nascita e il momento in cui avvenne la sua adesione al cristianesimo. Gli unici dati certi sono la sua origine greca (il suo nome, in greco, significa “corona”) e la sua autorevolezza presso il gruppo degli ellenisti. Così erano chiamati gli ebrei di lingua greca che provenivano dalla diaspora e che, solitamente, si differenziavano dai loro correligionari palestinesi nell’osservanza pratica di alcune prescrizioni della legge di Mosè. Il nome di Stefano compare per la prima volta a proposito di uno screzio fra i cristiani di origine ebraica e gli ellenisti. Come è riportato in At. 6, 1, “sorse un malcontento fra gli ellenisti verso gli ebrei, perché venivano trascurate le loro vedove nella distribuzione quotidiana”. La risposta della piccola comunità di Gerusalemme a tale malumore è l’istituzione di sette incaricati alla diaconía delle mense, ossia al servizio ai poveri della comunità. Stefano, “uomo pieno di fede e di Spirito Santo” (At. 6, 5) è l’esponente più autorevole di tale gruppo e la sua attività non si limita, evidentemente, alla distribuzione di cibo: “Stefano, pieno di grazia e di fortezza, faceva grandi prodigi e miracoli tra il popolo” A questo punto, l’attività di Stefano suscita il risentimento di un altro gruppo di ebrei della diaspora, che si riunisce nella “sinagoga dei liberti” e che comprende ebrei provenienti da varie regioni del Mediterraneo, Cirene, Alessandria, Cilicia e da altre regioni dell’Asia.

A differenza del gruppo dei “sette diaconi”, gli ebrei della sinagoga dei liberti osservano strettamente la legge di Mosè e non sono attratti dalla predicazione cristiana. Nel corso di un  tumulto, essi catturano Stefano e lo trascinano davanti al sinedrio: è chiaro che il loro fastidio nei confronti di Stefano non è dovuto alla sua attività caritativa o alla sua popolarità. Due sono le accuse che vengono rivolte a Stefano, suffragate dal concorso di falsi testimoni: “Costui non cessa di proferire parole contro questo luogo sacro e contro la legge” (At. 6, 13). Dunque, l’autorità del  tempio e la funzione della legge costituiscono i due punti di contrasto fra Stefano e i suoi avversari: entrambe le accuse mostrano come la predicazione di Stefano avesse come pilastro il superamento dell’appartenenza alla nazione giudaica. A queste due accuse Stefano risponde con il discorso, riportato da Luca in At. 7, 2-53, che significativamente, è il più lungo degli Atti degli Apostoli. Tale discorso è uno scorcio della storia della salvezza da Abramo a Salomone. In primo luogo, Stefano mostra come il concetto di elezione vada slegato dall’appartenenza etnica e debba essere considerato a partire da una libera iniziativa della grazia divina: in questo senso, va compresa l’affermazione iniziale di Stefano, “il Dio della gloria apparve al nostro padre Abramo quando era ancora in Mesopotamia” (At. 7, 2). In secondo luogo, sono proprio gli israeliti ad aver rifiutato la legge di Mosè, quando “fabbricarono un vitello e offrirono sacrifici all’idolo” (At. 7, 41). Infine, Stefano mostra come il tempio non sia indispensabile per il culto, dal momento che “i nostri padri avevano nel deserto la tenda della testimonianza” (At. 7, 44) e “l’Altissimo non abita in costruzioni fatte da mani d’uomo”. La conclusione del discorso di Stefano suscita nei suoi ascoltatori sentimenti di astio, che si trasformano in violenza irrefrenabile e omicida in seguito alla sua confessione di fede in Gesù Cristo: “Ecco, io contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio” (At. 7, 56). Il modello del martirio di Stefano è la passione di Gesù: entrambi vengono processati con il concorso di falsi testimoni;  come Gesù aveva raccomandato il suo spirito al Padre (Lc. 23, 46), così Stefano si affida al Signore Gesù (At. 7, 59); prima di morire, entrambi perdonano i propri uccisori. L’unica sostanziale differenza consiste nel fatto che, al contrario di Gesù, Stefano non viene sottoposto ad un regolare processo: Luca infatti non accenna alla presenza di alcuna  autorità romana e la lapidazione viene eseguita in un luogo imprecisato fuori dalle mura.

Stefano, il primo martire cristiano, morì dunque nel corso di una sommossa popolare, provocata dalla sua coraggiosa predicazione della fede in Gesù Cristo. Il contenuto del discorso di Stefano, ossia il superamento del nazionalismo giudaico, ha come conseguenza pratica l’inizio della missione cristiana fuori dai confini etnici del popolo di Israele. In questo senso, si può parlare del suo martirio come di una vera e propria svolta nella storia della comunicazione del Vangelo da Gerusalemme fino agli estremi confini della terra. Infatti dopo la morte di Stefano, “scoppiò una violenta persecuzione contro la Chiesa di Gerusalemme e tutti, a eccezione degli apostoli, furono dispersi nelle regioni della Giudea e della Samaria” (At. 8, 1): una dispersione che permette ai discepoli di “diffondere la parola di Dio” (At. 8, 4). Il culto di santo Stefano è vivo fin dai primi secoli del cristianesimo e già nel IV secolo il giorno di festa fu fissato al 26 dicembre, secondo l’usanza di festeggiare in prossimità del Natale i primi testimoni dell’avvento del Signore. In proposito, va ricordato che anticamente anche le memorie di Pietro, Paolo, Giovanni e Giacomo cadevano durante il ciclo natalizio. Il culto nei confronti del primo martire cristiano ebbe una vera e propria esplosione a partire dal 415, quando il prete Luciano di Ke˘far-Gamlâ, un villaggio nei pressi di Gerusalemme, scrisse una relazione sul miracoloso ritrovamento delle reliquie di Stefano. Il racconto è fantasioso e prende spunto da un sogno che lo stesso sacerdote avrebbe fatto per ben tre volte: il rabbino Gamaliele, il membro autorevole del sinedrio menzionato in At. 5, 34, che fu anche maestro di san Paolo, sarebbe apparso al prete Luciano per invitarlo a dare degna sepoltura al suo corpo, che riposava insieme a quelli di suo figlio Abibo, di Nicodemo e del protomartire Stefano. Dopo la miracolosa scoperta delle reliquie,  la relazione di Luciano si conclude con la descrizione della solenne traslazione delle reliquie di santo Stefano nella chiesa di Sion a Gerusalemme il 26 dicembre dell’anno 415. Qualche anno più tardi, nel luogo della presunta lapidazione, a nord-est della Porta di Damasco, il vescovo Giovenale di Gerusalemme fece erigere una basilica, che fu consacrata alla presenza di Cirillo d’Alessandria nel 439. La basilica venne ingrandita qualche anno dopo per volontà dell’imperatrice Eudossia, che edificò anche un monastero. Nel Medioevo a Roma si contavano una trentina di chiese e cappelle dedicate alla memoria del santo: la più celebre è quella di Santo Stefano Rotondo, costruita nel V secolo da Papa Simplicio sul colle Celio. Una singolare devozioneè attestata ad Ancona, nella cui cattedrale, dedicata appunto a Santo Stefano, ancora oggi è conservata una pietra della lapidazione.
(di Marco Impagliazzo)