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01/08/2018

Sant’Alfonso Maria de’ Liguori

Tu scendi dalle stelle, o Re del cielo, e vieni in una grotta, al freddo e al gelo…”. Questa è una delle più tenere canzoncine che siano state dedicate a Gesù appena nato. Diceva Giuseppe Verdi che senza questa pastorale Natale non sarebbe più Natale. L’autore è Alfonso de’ Liguori, nato il 27 settembre 1696 a Marianella, la tenuta, a pochi chilometri da Napoli, dove i suoi genitori trascorrevano le estati. Sant’Alfonso è detto “il più napoletano dei santi e il più santo dei napoletani”. Il secondo appellativo non ha bisogno di spiegazioni. Carità, umiltà, spirito di sacrificio, devozione sconfinata a Dio, alla Madonna, a Gesù caratterizzarono la sua vita. È detto “il più napoletano dei santi” perché aveva una natura eclettica come molti suoi concittadini. Dipingeva benissimo, fu un musicista eccellente, un poeta raffinato, un oratore trascinante e un teologo illustre. Come era in uso in molte famiglie nobili Alfonso studiò in casa. Ebbe maestri illustri e sembrava portato per tutte le discipline, primeggiando anche nelle arti nobili quali la scherma e l’equitazione. A dodici anni sostenne con eccellenza l’esame di ammissione all’università, davanti a Giambattista Vico. Non era consentito diventare avvocato prima dei vent’anni, ma Alfonso ottenne una dispensa, e divenne dottore in legge a sedici anni. Nonostante l’età, le sue vittorie in tribunale non si contavano. Il padre era orgoglioso di lui e sognava di vederlo sposato, ma Alfonso rinunciò al matrimonio, e per undici anni esercitò l’avvocatura con straordinario successo. Ma era pieno di dubbi. Un giorno aveva una causa importantissima, il suo cliente era un nobile napoletano, il duca Orsini. Il loro avversario era nientedimenoche Cosimo III de’ Medici. Alfonso sapeva che il suo cliente aveva ragione e aveva fede nella giustizia. Ma i Medici erano potenti, perfino il re Carlo IV intervenne. Le pressioni e le interferenze furono tante che Alfonso perse la causa. Era la prima sconfitta della sua vita e ne fu sconvolto. Si sentiva come sepolto sotto le macerie dei suoi ideali frantumati…Congedò tutti i clienti e rinunziò alla professione. Evitò anche tutte le occasioni mondane.

In realtà Alfonso cercava la luce nel buio improvviso che aveva avvolto la sua vita. La trovò nell’agosto del 1723, uscendo una sera dall’ospedale. Fu abbagliato proprio da una gran luce e udì una voce chiara e forte: “Lascia il mondo, donati a me…”. Alfonso pensò a una suggestione, a uno scherzo del caldo. Ma qualche ora dopo la luce tornò e la voce si fece sentire di nuovo. Alfonso non ebbe più dubbi: Dio lo voleva. “Mai!” urlò suo padre quando gli comunicò la sua intenzione di diventare prete. Per obbedienza Alfonso rinunziò a entrare in seminario, accettò di studiare in casa. Il padre gli tagliò i viveri e lui non aveva nessuna fonte di guadagno. Il brillante cavaliere di un tempo era sparito, ora girava per la città con una tonaca sbrindellata e l’aria smarrita e molti pensavano che fosse impazzito. Eppure si sentiva felice. Studiava, pregava, scriveva. Il 6 aprile 1726 Alfonso divenne diacono. Il cardinale Pignatelli lo mandò a predicare in tutte le chiese della città. Il suo amore per Dio era contagioso, aveva il dono di infiammare i cuori. Ma gli studi severi e i sacrifici che si imponeva minarono la sua salute. Alfonso stette così male che i genitori temettero potesse morire. Quando si rimise fu tale il sollievo del padre che rinunziò ai sogni che aveva per lui e accettò la sua scelta: il 21 dicembre del 1726 Alfonso finalmente divenne sacerdote. Nella chiesa di Santa Maria della Mercede conobbe un gruppo di seminaristi e alcuni laici impegnati. Tutte le sere Alfonso e i suoi amici predicavano la parola di Dio, scegliendo i quartieri più poveri e malfamati. La gente accorreva, nelle strade si levavano canti, preghiere, voci felici e anche risate. Qualcuno protestò e intervenne il governatore per proibire queste riunioni. Alfonso allora scisse il gruppo in tanti piccoli gruppi che si riunivano in luoghi diversi. Il cardinale mise a disposizione gli oratori, le chiese e le cappelle della diocesi. Nacquero così quelle “Cappelle serotine” che furono un’anticipazione dell’Azione Cattolica.

Alfonso continuava a vivere con i genitori per timore di lasciarli. Nel 1730 trascorse una breve convalescenza a Scala, un paesino vicino a Amalfi. Qui si trovò a contatto con contadini, bovari, poveri disgraziati che non avevano mai sentito parlare di Dio, di Gesù, della Madonna. Alfonso, che aveva desiderato di andare in missione in Cina, comprese che questa poteva essere vicinissima, era dovunque esisteva il deserto creato dall’ignoranza di Dio. Riuscì a trasferirsi a Scala, sognata ora come terra di missione, due anni dopo, nel 1732. Qui Alfonso aveva conosciuto una suora, Celeste Crostarosa. L’intensità della sua fede lo aveva colpito e aveva intercesso per lei presso il vescovo di Castellammare perché l’autorizzasse a fondare un “istituto”. Quando tornò a Scala alloggiò con cinque confratelli nella foresteria dell’istituto, e nella chiesetta del monastero celebrarono un triduo eucaristico al quale parteciparono due vescovi. Durante la celebrazione ebbero una visione sconvolgente: si vide chiaramente una croce coperta di stille di sangue librarsi in aria… e poi la lancia che aveva trafitto il costato di Gesù. I presenti decisero di non parlare a nessuno di questo fenomeno sconvolgente e pochi giorni dopo, nell’oratorio delle suore, Alfonso e i suoi cinque amici fondarono la Congregazione del Santissimo Salvatore. Quando molti anni dopo Alfonso disegnerà lo stemma per il suo Istituto farà una croce unita alla lancia e alla spugna della Passione Alfonso dovette lottare a lungo per vedere riconosciuta la sua congregazione. Finalmente il 16 febbraio 1749 il riconoscimento arrivò da papa Benedetto IX: il nome della congregazione era stato cambiato in quello di Santissimo Redentore. Anni dopo, nel 1762, Alfonso, felice anche se oppresso da varie malattie, si trovava a Nocera dei Pagani e le sue giornate erano scandite dalla preghiera e dal lavoro: Alfonso ha scritto cento dieci opere e una cinquantina di canzoncine dedicate alla Vergine. Le case dei redentoristi erano oramai sei. Attendeva tranquillamente la morte e invece gli giunse la notizia che il papa lo aveva nominato vescovo di Sant’Agata dei Goti.

Ne fu disperato, ma dovette obbedire. In realtà anche come vescovo fu amatissimo. La Cina di Alfonso in quegli anni fu la sua diocesi alla quale dedicò tutte le sue energie. La sua santità era contagiosa e molti, seguendo i suoi consigli, cambiarono vita. Inchiodato alla sedia dall’artrosi e da mille sofferenze continuò a scrivere. Il 17 luglio 1775 il papa finalmente accettò le sue dimissioni. L’Istituto del Santissimo Redentore in quegli anni si era sviluppato, erano sorte nuove case in Sicilia e a Roma, ma ancora non aveva avuto il riconoscimento civile. Alfonso supplicò il re Ferdinando IV di concederglielo e, finalmente, nel 1780 l’ottenne. Ma Alfonso aveva molti nemici, invidiosi della sua opera. Uno di questi convinse il papa che Alfonso aveva accettato alcune modifiche apportate dal re allo statuto dell’Ordine. Pio VI, senza neppure ascoltare Alfonso, scisse in due tronconi l’istituto: le case in Sicilia non appartenevano più ai redentoristi. Insieme alla sua opera anche il cuore di Alfonso si spezzò. Aveva consacrato la sua vita al suo Istituto e ora lo vedeva diviso per ordine del papa al quale doveva obbedienza e amore… Non poteva fare altro che accettare la sua volontà ma il suo dolore fu immenso e lo accompagnò fino alla morte, il 1° agosto 1787. Dopo la sua morte, i miracoli nel suo nome si moltiplicarono e fu aperto il processo per la sua canonizzazione. Pio VI si accusò di avere tormentato un innocente e dispensò dall’attendere i dieci anni prescritti. Alfonso, beatificato nel 1816, fu canonizzato il 26 maggio 1839. Nel 1871 fu dichiarato dottore della Chiesa, e nel 1950 fu proclamato patrono dei confessori e dei moralisti.

(Testo di Natalia Forte)