San Paolo Store

09/10/2018

Sant’Abramo Patriarca

"Abramo è Padre di tutti i non circoncisi che credono (…) e padre anche dei circoncisi che camminano sulle orme della sua fede”. Queste parole che san Paolo indirizza ai cristiani di Roma nella sua Lettera (4,11- 12) ben illustrano la figura del grande patriarca biblico che è la radice non solo della storia ebraica ma anche di quella cristiana e che sarà assunto dallo stesso Islam come Padre, attraverso il suo figlio Ismaele. Abramo è, dunque, “la roccia da cui Israele è stato stagliato, la cava da cui è stato estratto” (Isaia 51,2), ma è anche Padre nella fede dei cristiani e dei musulmani, divenendo così il punto di riferimento dei tre monoteismi. La sua vicenda è affidata soprattutto a una serie di capitoli del libro della Genesi che sono in realtà la fusione di varie tradizioni antiche, faticosamente e spesso ipoteticamente identificate dagli studiosi e denominate con termini convenzionali (Jahvista, Elohista, Sacerdotale) oppure con altre sigle e suddivisioni. Sta di fatto che il ritratto risultante del patriarca è, da un lato, abbastanza  omogeneo perché quelle differenti tradizioni sono state coordinate da un redattore finale, ma è pure, d’altro lato, non privo di qualche incongruenza o ripetizione. Il nome Abram/Abraham (la variazione è introdotta solo per indicare il mutamento della sua realtà intima con la vocazione e con la missione divina di capostipite del popolo ebraico) è spiegato dalla Genesi liberamente come “padre di una moltitudine”. In realtà, esso è rintracciabile anche in testi egizi del XVIII secolo a.C. nella forma Aburah(a)ma col significato di “padre mio (cioè il dio protettore) eccelso”. La Bibbia colloca le sue origini a Ur, la grande città mesopotamica dei Sumeri, ma il riferimento successivo per la sua migrazione è Harran che si trova più a nord, al confine con l’area siriana. La storia del patriarca, anche se contiene memorie che suppongono l’arco di tempo che va dal XIX secolo al XV secolo a.C., è profondamente segnata dall’interpretazione religiosa che ha tonalità differenti secondo le diverse tradizioni. Significativi sono alcuni temi che fungono da linea conduttrice. Si parte con la benedizione-promessa esplicitata nel prologo dell’intera vicenda di Abramo: la vocazione del patriarca è ritmata per cinque volte dal verbo “benedire”, segno della protezione divina che cancella la maledizione che incombeva nei capitoli precedenti della Genesi sull’umanità peccatrice.

Abramo esce dalla sua patria, accompagnato da una promessa di discendenza: “Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle, così sarà la tua discendenza”. Una promessa a cui egli aderisce con la sua fede: “Abramo credette nel Signore che glielo accreditò come giustizia”. Ma la promessa comprende una dialettica, ossia un intreccio di luci e oscurità. Abramo è vecchio, Sara, sua moglie, è in menopausa. Si cerca, allora, di risolvere la questione ricorrendo alla prassi orientale del figlio avuto dalla schiava della moglie del patriarca, Agar: Ismaele è, secondo il diritto antico, figlio di Abramo, ma non lo è secondo il disegno di Dio per il quale la promessa passa attraverso un figlio di Sara. Ed ecco, alla fine, il dono di Isacco, che la Bibbia interpreta nel suo nome come “riso del Signore”, un “riso” che si oppone al “ridere” scettico di Abramo e di Sara. Eppure non si è ancora concluso il dramma della fede nella promessa divina. Infatti sopraggiunge, a sorpresa, l’ordine divino di sacrificare quel figlio. Il percorso di tre giorni verso il Monte Moria, luogo del sacrificio, il silenzio di Dio, l’avvio del rito sacrificale col figlio Isacco legato sull’altare diventano la più alta rappresentazione della fede del patriarca ricondotta al suo stadio più puro, senza appoggi umani e prove razionali. Abramo, però, è pronto a rinunziare a tutto, affidandosi solo a Dio e alla sua parola, ed è per questo che il figlio, ricevuto di nuovo alla fine della prova, non è più colui che è nato dal suo seme ma è, in senso pieno e perfetto, il figlio della promessa divina, dono assoluto del Signore. Il tema della promessa, però, comprendeva anche la terra di Canaan. Anche in questo caso appare una tensione: l’unico possesso territoriale che alla fine Abramo avrà sarà la grotta sepolcrale di Macpela. Eppure egli continuerà a credere nelle parole scandite da Dio a più riprese: “Alla tua discendenza io do questo paese, dal fiume di Egitto al grande fiume, l’Eufrate”. Fa, così, la sua apparizione un’altra componente, quella dell’alleanza, in ebraico berît: essa è, innanzitutto, impegno di Dio che donerà la terra e la discendenza, ossia la continuità nel tempo e nello spazio al popolo che nascerà dal patriarca. Tuttavia l’alleanza è anche un impegno dell’uomo, espresso attraverso il gesto della circoncisione, segno vivente del legame di fede con cui Israele aderirà alla promessa divina.

Morto a 175 anni, Abramo entra nella storia biblica come il modello della fede: basterebbe solo leggere l’ampio ritratto che ne fa l’autore della Lettera agli ebrei nella sua galleria degli eroi della fede. Ma è stato soprattutto san Paolo a esaltare questo lineamento del volto spirituale del patriarca. Due sono i passi fondamentali. L’apostolo nella Lettera ai galati riprende il tema della fede di Abramo, mostrando che è solo per essa che egli fu giustificato e divenne sorgente di benedizione per l’umanità. Figli di Abramo si è, quindi, non per una discendenza carnale, ma per l’imitazione vitale della sua fede. La discendenza vera di Abramo è costituita da Cristo e da coloro che credono in Dio e nelle sue promesse. L’altro passo capitale paolino su Abramo è nella Lettera ai romani, ove l’apostolo tipizza nella figura del patriarca i motivi centrali della sua dottrina della giustificazione che si attua solo per grazia divina e per fede umana, indipendentemente dalle opere della legge e dalla circoncisione. Notando che la Genesi afferma che Abramo fu giustificato per la sua fede prima ancora di essere circonciso, Paolo presenta il patriarca come prefigurazione di una salvezza che non deriva dalle opere umane ma solo dal dono divino accolto nella fede. Erede di Abramo è, quindi, il popolo dei credenti, circoncisi e incirconcisi. I cristiani, accogliendo per fede la grazia offerta da Dio in Cristo Gesù, diventano “discendenza di Abramo ed eredi secondo le promesse”. È ciò che Gesù stesso aveva affermato esaltando le “opere di Abramo” e la genuina discendenza abramitica nel Vangelo di Giovanni. Là poi Cristo definiva anche il suo rapporto e il suo primato nei confronti del patriarca: “Prima che Abramo fosse, Io sono!”. In questa luce si comprende anche come Abramo sia diventato l’emblema della vita in Dio. Il suo destino ultimo è quello di essere col suo Signore: è così che si conierà l’espressione “nel seno di Abramo” per designare la sorte ultima del giusto in comunione col “Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Non Dio dei morti ma dei vivi!” (Matteo 22,32). La presenza del patriarca sarà, comunque, rilevante anche nella storia dell’umanità, non solo a livello religioso per le tre fedi monoteistiche (egli è presente in ben 25 sure o capitoli del Corano), ma anche per la stessa storia dell’arte e della cultura occidentale, tant’è vero che il pur ostile filosofo tedesco Friedrich W. Nietzsche (1844-1900) riconoscerà che “per noi Abramo è più di ogni altra persona della storia greca e tedesca”. Sarà soprattutto il gesto del sacrificio di Isacco, che appare già in un affresco della catacomba romana di Priscilla del III secolo, a dominare nella cultura cristiana come prefigurazione del sacrificio di Cristo. Abramo, poi, entrerà tra i santi del Martirologio romano che collocherà la sua festa al 9 ottobre, mentre il canone romano della messa lo menzionerà esplicitamente e nella Quaresima ambrosiana la terza domenica verrà denominata “di Abramo” per la lettura evangelica del capitolo 8 di Giovanni ove, come si è visto, il patriarca fa la sua presenza nelle parole di Gesù. Potremmo, allora, tenere come sigla ideale per la devozione nei suoi confronti le parole di Isaia: “Guardate ad Abramo vostro padre e a Sara che vi ha partorito; poiché chiamai lui solo, lo benedissi e lo moltiplicai”.

(di Gianfranco Ravasi)