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30/07/2018

San Leopoldo Mandic

Alto un metro e quaranta, artrite alle mani, difficoltà nel parlare, occhi arrossati: davvero un poveretto da compatire. A  più di cinquant’anni dalla morte, lo invocano nel santuario padovano dov’è la sua tomba. È nato alle Bocche di Cattaro, terra dalmata sotto gli Asburgo. Battezzato col nome di Bogdan, entra sedicenne nel seminario cappuccino di Udine, poi è novizio a Bassano diventando fra Leopoldo, pronuncia i voti e nel 1890 è sacerdote,  con un sogno preciso: spendere la vita per riconciliare con Roma i cristiani orientali separati. Il più piccolo frate dell’intero Ordine cappuccino cammina tra i primissimi sul sentiero dell’ecumenismo. Vuole andare in Oriente, e per due volte crede di fare il primo passo, quando lo mandano a Zara e a Capodistria. Ma nella guerra del 1915-18, essendo croato (ossia “suddito nemico”), deve risiedere nel Meridione d’Italia. Confessore a Padova, comincerà presto a essere “assediato”, ma nel 1923 lo destinano a Fiume, come confessore dei cattolici slavi. E la missione in Oriente sembra farsi realtà. Ma i padovani ne hanno bisogno e, per intervento del vescovo Dalla Costa, riescono a trattenerlo. Il gigante della confessione. E anche il martire, perché vi brucia tutte le sue energie, ricco di compassione per tanta gente che impara da lui a conoscersi e a riprendere fiducia. Lui però non è un tipo bonario per naturale tranquillità. Al contrario, è bellicoso e capace d’infiammarsi in scatti aspri e inattesi, come il suo compatriota san Girolamo. Sembra impossibile che resista, sempre più fragile, a questo genere di vita, inasprito da preghiere, penitenze, digiuni. E quando nel 1942 lo portano in ospedale, trova modo di confessare anche lì. Gli riscontrano però un tumore all’esofago. Torna allora in convento e muore il 30 luglio 1942, dopo aver tentato ancora di vestirsi per la messa. Giovanni Paolo II, nel 1983, ha collocato Padre Leopoldo tra i santi.