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03/09/2018

San Gregorio I Magno

Se l’età medievale si caratterizza per i nuovi rapporti instaurati con le popolazioni germaniche insediatesi nelle antiche terre dell’Impero romano, nella storia della Chiesa questa decisiva apertura verso nuove frontiere si deve al papa Gregorio Magno, consacrato il 3 settembre del 590 e morto il 12 marzo 604. Con i santi Ambrogio, Girolamo e Agostino, è uno dei quattro grandi dottori della Chiesa occidentale; dopo LeoneI, è l’unico nella serie dei papi cui è universalmente riconosciuto il titolo di Magno. Nacque a Roma intorno al 540, in una famiglia che si distingueva per la nobiltà (probabilmente apparteneva alla gens Anicia), ma soprattutto per l’adesione alla fede cristiana e per i servizi prestati alla Sede apostolica. I suoi genitori, Gordiano e Silvia, sono ambedue venerati come santi; sante le sue zie paterne Tarsilla ed Emiliana, anch’esse monache di casa; tra gli ascendenti il papa Felice III (483-492), suo trisavolo. Esponente di tale famiglia, il giovane Gregorio fu destinato alla carriera civile, mediante una solida formazione giuridica, e giunse a ricoprire ben presto importanti cariche, forse anche quella di prefetto della città, durante il governo bizantino di Roma. Ma il suo intimo desiderio era orientato diversamente; pensava alla vita ascetica. Probabilmente durante la prefettura venne a morte il padre, e allora Gregorio si sentì più libero di fare le proprie scelte. Intorno al 572 abbandonò la carriera civile, trasformò la sua casa sul Celio in monastero dedicato a sant’Andrea, e vi intraprese la vita monastica. Prima di questa decisione, fondò nelle proprietà della sua famiglia in Sicilia sei monasteri. Il ritiro claustrale di Gregorio non durò a lungo; il papa Pelagio II lo chiamò a far parte dell’ordine del diaconato e nel 579 lo inviò come suo rappresentante a Costantinopoli, dove rimase fino alla fine del 585. Gregorio lasciò con rammarico il suo monastero e condusse con sé un piccolo gruppo di monaci a Costantinopoli, per continuare a vivere con essi come monaco. Assolse il compito con la sua abituale capacità, specialmente quando si trattò di ottenere dall’imperatore aiuti militari per l’Italia, minacciata dalla presenza dei longobardi; nello stesso tempo strinse utili amicizie e venne a conoscenza della diplomazia bizantina. Richiamato a Roma, divenne il consigliere più ascoltato dal papa, specialmente nella difficile questione dello Scisma tricapitolino, che allontanò in pratica dalla Sede apostolica alcuni vescovi dell’Italia settentrionale, a causa di una pretestuosa fedeltà al concilio di Calcedonia. La sua elezione a pontefice fu del tutto scontata alla morte di Pelagio II, avvenuta il 5 febbraio del 590, a causa di una peste bubbonica che mieté molte vittime anche a Roma. Ma Gregorio, riluttante, volle attendere la conferma di Bisanzio, e fu consacrato il 3 settembre di quello stesso anno. Come vescovo di Roma attese subito al ministero della predicazione al popolo: ci sono pervenute quaranta omelie sui Vangeli, esemplari per la semplicità e lo zelo pastorale che il papa dimostrava. Richiamò anche il clero e i monaci all’osservanza delle rispettive norme canoniche.

Come metropolita della provincia ecclesiastica romana che comprendeva le chiese dell’Italia centrale e meridionale, con le isole di Sicilia e di Corsica, il papa si preoccupò subito delle elezioni episcopali, perché si svolgessero secondo le norme stabilite, e fossero scelte persone idonee all’ufficio pastorale. In qualche caso negò la conferma dell’eletto e ordinò nuove elezioni. Da tutti esigeva diligenza nell’esercizio dell’ufficio pastorale. Procedette anche al riordinamento delle diocesi, resosi necessario per gli sconvolgimenti della guerra gotica prima e poi dall’invasione longobarda. Intrattenne frequenti rapporti anche con gli altri metropoliti d’Italia che erano allora i vescovi di Ravenna, Milano, Aquileia e Cagliari. Ma il problema che più di ogni altro lo preoccupò nella situazione italiana fu la presenza dei longobardi, che l’Impero, attraverso l’opera dell’esarca di Ravenna, considerava come nemici da sottomettere, mentre Gregorio li riteneva un popolo da convertire e da condurre a pacifici rapporti con i bizantini. In generale Gregorio mostrò maggiore attenzione dei suoi predecessori verso quei regni che si erano costituiti in Occidente, per rinsaldare i vincoli con quelli che erano già cattolici e per condurre all’ortodossia quelli che erano eretici, e alla fede quelli ancora pagani. In Spagna, il re Reccaredo, successo al padre Leovigildo nel 586, si convertì al cattolicesimo, già nel primo anno del suo regno, a opera di Leandro, vescovo di Siviglia, e ne dette comunicazione entusiasta al papa. Da allora la Chiesa dei visigoti si mantenne fedele alla dottrina cattolica, anche attraverso numerosi concili celebrati dai vescovi del regno. Più difficile la situazione nei vari regni franchi, anche se cattolici; Gregorio denunziava abusi che avrebbe voluto estirpare. Uno degli abusi più deplorevoli, anche per le nefaste conseguenze, era quello di promuovere all’episcopato laici che non avevano alcuna preparazione; senza dire delle pratiche simoniache che trovavano tolleranza, se non proprio favori e privilegi, in alcuni membri di quell’episcopato. Pertanto, allorché nel 595 il re Childeberto d’Austrasia e Burgundia chiese al papa di ripristinare il vicariato apostolico di Arles, da molto tempo vacante, il papa fu ben lieto di affidare l’incarico allo stesso Virgilio, vescovo di Arles, per togliere gli abusi e preparare, con altri vescovi, un concilio riformatore delle Chiese dell’antica Gallia. Gregorio non vide se non l’avvio della riforma a opera del vescovo di Arles, ma il concilio celebrato a Parigi nel 614, recepì le istanze riformatrici del papa, il quale, alla morte di Childeberto (596), si avvalse della collaborazione della regina Brunechilde. La conversione degli angli fu senza dubbio l’iniziativa più notevole promossa da Gregorio Magno verso i barbari. Nessuno dei suoi predecessori aveva avviato una tale impresa missionaria. Probabilmente è leggendaria la presenza di alcuni giovani angli, venduti come schiavi sul mercato di Roma, e la conseguente richiesta del diacono Gregorio al papa Pelagio II di potersi recare in Britannia ad annunziare il Vangelo ai popoli, ancora pagani, immigrati nell’isola. Di fatto, divenuto papa, Gregorio cominciò a preoccuparsi per la conversione di quei popoli, che i vescovi dei regni più vicini non avevano preso a cuore.

Vi furono vari tentativi; finalmente nella primavera del 596, il papa decise di mandare Agostino, priore del monastero di Sant’Andrea, con altri quaranta monaci, alla volta dell’Inghilterra. Era la prima volta che Roma organizzava una spedizione missionaria di quelle dimensioni. Giunti in Provenza i missionari furono presi da sgomento, e Agostino tornò a Roma per riferire a Gregorio la situazione. Ma il pontefice fu irremovibile, e rimandò Agostino con nuovi motivi di incoraggiamento. Il gruppo dei missionari romani sbarcò alla foce del Tamigi, nel regno del Kent, dove il sovrano, il re Etelberto, che aveva sposato una principessa cattolica, Berta, figlia di Brunechilde, accolse favorevolmente i monaci, e lui stesso ricevette il battesimo nella Pentecoste del 597. Gregorio gioì dei buoni risultati della missione, e ne seguì gli sviluppi attraverso suggerimenti che non lasciò mancare ad Agostino, il quale, nel frattempo, era stato ordinato vescovo, fissando la sede a Canterbury. Altri monaci furono posti alla guida delle nuove diocesi che si erano costituite, a seguito della conversione della popolazione locale. Non furono sempre facili le relazioni con le Chiese orientali. Ma Gregorio si attenne al principio di intervenire soltanto in questioni di una certa gravità, e servendosi dei patriarchi che erano a capo delle varie circoscrizioni ecclesiastiche, con i quali mantenne buoni rapporti. D’altra parte occorre tenere presente che questi vescovi riconoscevano il primato del papa. In qualche caso Gregorio li esortò a non ammettere pratiche simoniache nell’amministrazione dei vari sacramenti. E quando venne a conoscenza che il patriarca di Costantinopoli si era assunto il titolo di patriarca ecumenico, Gregorio reagì non tanto perché costituisse un pericolo per il primato della Chiesa romana, quanto perché lo riteneva un gesto di superbia, sconveniente in un vescovo. Da parte sua preferì presentarsi con il titolo di “Servo dei servi di Dio”, già introdotto dai suoi predecessori; sarebbe poi divenuto abituale nella cancelleria pontificia. Mantenne buoni rapporti con l’imperatore, ma quando Maurizio, nel 593, emanò una legge che vietava ai curiali di abbracciare lo stato ecclesiastico e proibiva a loro e ai militari di entrare nella vita monastica, Gregorio scrisse all’imperatore chiedendone la revoca, e ricordandogli che il potere temporale non doveva intralciare quello di Dio. Maurizio non ritirò la legge, ma non rimase del tutto indifferente alle rimostranze del pontefice, concedendo ai vescovi di ammettere, almeno in monastero, i funzionari che ne facevano richiesta. Notevole l’opera di Gregorio Magno nell’amministrare i beni della Chiesa. Si tratta del patrimonio fondiario più grande in Italia; la Chiesa romana, infatti, possedeva fondi in Sicilia, nella Campania, nel Lazio, in Sardegna, in Corsica, in Africa e nella Dalmazia, senza contare quei possedimenti nell’Italia longobarda, che probabilmente erano stati confiscati. Gregorio ne perfezionò l’organizzazione in modo da renderli fruttuosi per le grandi necessità della stessa Chiesa romana, per il mantenimento dei numerosi poveri, per i monasteri, per il clero, per gli edificidi culto. Né trascurò l’opera di riforma liturgica, anche se non gli si può attribuire il Sacramentario che porta il suo nome, e nel quale alcune preghiere risalgono certamente a lui. Altrettanto si può dire per il canto gregoriano, che il pontefice contribuì a diffondere nei riti della Chiesa, anche se non ne fu l’inventore.

Ma il papa ha lasciato una preziosa eredità alla Chiesa, specialmente con i suoi scritti. Un Commento al Cantico dei Cantici, rimasto incompiuto, è probabilmente il primo scritto di Gregorio che ci sia pervenuto. È indirizzato a coloro che sono avanzati nella vita contemplativa; mancano precisi riferimenti monastici e pastorali. Per l’interpretazione del Cantico (la sposa, figura della Chiesa )Gregorio segue l’esegesi tradizionale, specialmente di Origene. Invece compose, in forma di conferenze monastiche, durante il periodo di Costantinopoli, il commento al Libro di Giobbe, Moralia in Job, che rivide durante gli anni del pontificato. La persona di Giobbe, nell’interpretazione allegorica di Gregorio, rappresenta la Chiesa, le cui sofferenze vengono prefigurate nell’Antico Testamento. In questo scritto Gregorio rivela tutte le finezze della sua scrittura: eleganza stilistica e sensibilità poetica. Nella Regula pastoralis, composta nel primo anno del pontificato, presenta gli orientamenti ai quali ispirò la sua azione di vescovo, come possibile guida per chi doveva governare una Chiesa. L’opera fu largamente diffusa, e anche tradotta in greco. Numerosi sinodi del secolo IX ne accolsero le raccomandazioni. Ha lasciato anche quaranta omelie pronunciate nei primi tempi del pontificato. Ispirate ad Agostino, ma con uno stile semplice, misurato alla capacità dell’uditorio, offrono un’interpretazione allegorica e morale delle pericopi evangeliche, che il popolo seguiva con grande attenzione. A causa della sua salute, le prime venti furono lette da un diacono, ma alla sua presenza. Più tardi, verso la primavera del 594, compose le Omelie su Ezechiele per un piccolo uditorio composto di monaci e di chierici; ma dopo le prime dodici dovette interrompere l’opera a causa degli eventi bellici (l’avvicinarsia Roma del re longobardo Agilulfo); furono riprese con altre otto in un secondo tempo; ma Gregorio non ritenne concluso il lavoro. Ad altro genere, agiografico, appartengono i quattro libri dei Dialoghi, dedicati agli asceti vissuti in Italia; tutto il secondo libro narra la vita di san Benedetto, ed è un testo di grande valore, anche letterario, per capire la figura dell’Uomo di Dio, Benedetto, di nome e per grazia. Possediamo anche un copioso epistolario, di oltre ottocento lettere, che sono una viva testimonianza dell’attività del pontefice sia nell’amministrazione come nell’ambito disciplinare e caritativo. Alcune sono compilate secondo lo stile formale della curia, ma altre hanno una caratteristica fortemente personale, e ci consentono di conoscere meglio l’animo di questo grande papa, al quale già l’antichità riconobbe anche il titolo di “Console di Dio”, e che, ben presto, fu venerato come santo da tutta la Chiesa.