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10/10/2018

San Daniele Comboni

"Precursore, evangelizzatore, profeta, pioniere, gigante missionario, promotore, liberatore, sacerdote e vescovo dal cuore magnanimo che sa perdonare, e specialmente amico dell’Africa, per la quale non esita a sacrificare tutto". In queste poche righe del cardinale Francis Arinze, Prefetto della Congregazione per il Culto divino e la disciplina dei Sacramenti, c’è un ritratto fedelissimo di san Daniele Comboni, uno dei più grandi missionari di ogni tempo, al quale l’Africa deve molto del suo presente e del suo futuro. Daniele nasce il 15 marzo 1831 a Limone sul Garda, in quello che allora era territorio austriaco, da genitori profondamente cristiani. Dopo le elementari fatte privatamente sotto la guida di esperti sacerdoti, all’età di undici anni frequenta come esterno i corsi di ginnasio nel seminario vescovile di Verona, poi entra nell’istituto di don Nicola Mazza, che accoglie giovani di famiglie povere, ma desiderosi di istruirsi. Aveva assorbito una profonda sensibilità per l’attività evangelizzatrice nei paesi d’oltremare e la trasmetteva ai suoi ragazzi. Daniele rivela presto una solida vocazione. Il momento è favorevole all’espansione missionaria della Chiesa, una volta esauritasi la bufera bellica che, con l’occupazione di Roma da parte dei francesi, aveva portato alla soppressione di “Propaganda Fide”, il dicastero vaticano che si occupa delle missioni. Sorgono un po’ dovunque istituti missionari e arrivano in Africa le prime donne, le Suore di San Giuseppe fondate da Anna Maria Javouhey. In Italia, il sacerdote ligure don Olivieri, nel 1838, ha avviato l’Opera del Riscatto per i fanciulli africani e papa Gregorio XVI, che l’anno dopo ha confermato la condanna dello schiavismo, nel 1845 conferirà l’episcopato ai primi sacerdoti di colore. Nel 1847 un prete dell’istituto di don Mazza parte con il gesuita polacco Massimiliano Ryllo e altri due sacerdoti per operare nel neo-eretto Vicariato Apostolico dell’Africa Centrale, il più vasto del mondo. La spedizione fallisce dopo cinque mesi di peripezie seguiti dalla morte del Ryllo. Nonostante ciò Daniele, nel gennaio 1849, giura davanti al superiore di consacrare la sua vita all’apostolato dell’Africa Centrale. L’Istituto intanto ha aperto le porte a ragazzi e ragazze africani perché vi siano educati e poi rimandati in patria a fianco dei missionari.

Comboni verso la fine del 1854 in sole tre settimane riceve il suddiaconato, il diaconato e il sacerdozio. Da Khartoum, intanto, parte un invito esplicito del successore di padre Ryllo, mons. Knoblecher, per la creazione di una missione da affidare a preti dell’Istituto Mazza. Daniele comincia a studiare l’arabo, preparandosi a partire. La spedizione lascia Trieste il 10 settembre 1857, ma anche questa impresa fallisce: muoiono due sacerdoti del gruppo e un laico, mentre don Daniele è costretto a rientrare in Italia, dove giunge verso la fine del 1859, prostrato dalle febbri, ma portando in cuore il giuramento fatto a un confratello morente di non desistere dall’impresa. In Vaticano si pensa di smantellare la missione, ma proprio in questa fase si prepara l’esplosione carismatica che farà di Comboni il punto di confluenza delle molteplici esperienze precedenti.
Il 15 settembre 1864 egli si trova a Roma a pregare sulla tomba di san Pietro mentre si beatifica suor Margherita Maria Alacoque, l’apostola della devozione al Sacro Cuore. Dopo aver chiesto lumi alllo Spirito Santo, improvvisamente gli viene l’idea di mettere nero su bianco un suo progetto e di sottoporlo all’esame del cardinale Barnabò, Prefetto di “Propaganda Fide”. Deve essersi trattato di una specie di folgorazione perché, uscito dalla chiesa, per 60 ore consecutive egli condensa in una bozza di documento (24 pagine) quello che chiama Sunto del nuovo Disegno della Società dei Sacri Cuori di Gesù e di Maria per la Conversione della Nigrizia proposto alla Sacra Congregazione di Propaganda Fide da Daniele Comboni dell’Istituto Mazza”. Il riferimento al Sacro Cuore è fondamentale: nel 1876, in una lettera al cardinale Franchi, Daniele scriverà: “Fidandomi in quel Cuore sacratissimo, che palpitò pure per la Nigrizia, e che solo può convertire le anime, sentomi vieppiù disposto a patire e sudare fino all’ultimo respiro, e a morire per Gesù Cristo e per la salute dei popoli infelici dell’Africa Centrale”. La bozza finisce sulla scrivania del cardinale Barnabò, seguita quasi subito da un’altra con alcune modifiche: alla parola “Sunto” si sostituisce la parola “Piano” e al posto di “conversione della Nigrizia” si parla di “rigenerazione dell’Africa” secondo un programma globale che coniuga l’evangelizzazione con la promozione umana. Obiettivo è la salvezza dell’Africa per mezzo degli africani, i quali sono invitati a entrare da protagonisti nel campo della scuola, del lavoro, del commercio, per liberarsi dalla sudditanza economica. Il missionario deve dare gli strumenti essenziali, poi gli africani dovranno fare da sé.
Pio IX incoraggia Comboni, ma il suo progetto viene sconfessato da don Mazza, che muore poco dopo. Daniele, al termine di un giro attraverso l’Europa in cerca di aiuti e di appoggi, si rende conto che dovrà fare da solo e trasformarsi in fondatore. Il cardinale Barnabò gli suggerisce di cominciare con prudenza, mettendosi sotto l’autorità del vescovo di Verona, mons. Luigi dei marchesi di Canossa. Così il 1° giugno 1867 nasce l’istituto maschile per le Missioni della Nigrizia, concepito come un sodalizio di preti secolari e coadiutori laici sotto l’autorità del vescovo. In tutto sono sei persone: don Daniele, don Dal Bosco, già membro della prima sfortunata spedizione voluta da don Mazza, e quattro religiosi camilliani il cui ordine risultava soppresso dopo le leggi eversive del governo italiano. A loro si uniranno dodici ragazze africane e tre suore di San Giusepppe dell’Apparizione, concesse previo accordo tra Comboni e la loro superiora generale. Gli ostacoli però non mancano: calunniato a più riprese dai camilliani della spedizione, poi riconosciuto innocente, si fa nominare teologo al Concilio Vaticano I, apertosi in San Pietro l’8 dicembre 1869, e riesce a far inserire una richiesta (“Postulatum”) firmata da una settantina di vescovi per mettere all’ordine del giorno il problema della Nigrizia. Purtroppo, il 20 settembre lo sfondamento dei bersaglieri a Porta Pia e il plebiscito che annette al regno sabaudo l’ex Stato Pontificio costringono il Papa a sospendere il Concilio sine die (sarà Giovanni XXIII a dichiarare il Vaticano I ufficialmente chiuso). Intanto, il 1° gennaio 1872 spunta anche il ramo femminile dell’opera, le Pie Madri della Nigrizia.

Nominato nel 1877 vicario apostolico con dignità episcopale, Comboni proseguirà la triplice attività di penetraziobne nel cuore dell’Africa, tra i monti nubani e verso la zona equatoriale dei Grandi Laghi, e di animazione missionaria in Europa. Duro è l’impatto col dramma del commercio degli schiavi, ufficialmente abolito ma tuttora fiorentissimo nelle regioni meridionali. Intanto prosegue l’opera di “rigenerazione” da parte degli africani: accanto alle maestre nere si vanno formando famiglie di cristiani autoctoni in grado di trasmettere la fede, si consolidano comunità cristiane abilitate nei vari mestieri e nell’agricoltura, che si dimostrano autosufficienti: la “formula Comboni” funziona. Colpito da violente febbri e costretto a rientrare in Italia, monsignore ne approfitta per mettere insieme una nuova spedizione composta da sei Pie Madri della Nigrizia, sei coadiutori e tre sacerdoti. Non finiranno i contrasti e le calunnie contro di lui, ma le rigorose indagini di Propaganda Fide lo riabiliteranno e lo spingeranno a continuare. Il 2 ottobre 1881, una domenica, dopo aver aministrato quattordici battesimi, il Vicario Apostolico comincia ad avvertire dei brividi e un forte mal di testa. Pensando si tratti di uno dei tanti attacchi felicemente superati in passato, non si preoccupa più di tanto. Ma il resto della settimana lo trascorre a letto divorato dalla febbre. Domenica 9 capisce che è arrivata la sua ora e chiede i Sacramenti: le sue parole, nei momenti di lucidità, sono di incoraggiamento per i suoi missionari, perché vivano e muoiano a fianco degli africani. Verso mezzogiorno del 10 sopraggiunge la crisi finale da cui non si riavrà più. Poi, verso le 22, il suo gran cuore cede. In quel momento, i missionari e le suore presenti ripetono insieme il suo grido di battaglia: “O Nigrizia o morte!”. Daniele Comboni aveva poco più di cinquant’anni. Appena fu annunziata la morte, le grida dei ragazzi e delle ragazze della casa ne propagarono la notizia e in un momento il cortile si riempì di gente di ogni razza che veniva a rendere omaggio al vescovo, con un andirivieni che continuò per tutta la notte. Il mattino seguente, di buon’ora, furono celebrati i funerali. Oggi possiamo dire che il sogno profetico dell’Africa “rigenerata dagli africani” si è avverato: la Chiesa del Sudan è affidata alle cure di pastori autoctoni. Nel 1927 fu avviato il processo di canonizzazione, che richiese del tempo per una serie di circostanze legate a eventi politici e a motivi che la stessa Congregazione per le Cause dei Santi giudicò del tutto infondati e ingiustificati. Fu Giovanni Paolo II ad autorizzare la ripresa della causa rimasta “in sonno”. I “miracoli” non mancavano e il Papa beatificava Comboni il 17 marzo 1996, e appena sette anni dopo, il 5 ottobre 2003, lo canonizzava.

(di Angelo Montonati)